Il Nordest e i mestieri possibili
«Meglio contadino che operaio»
Le sorprese di uno studio Confindustria sulla «cultura» dei lavoratori dipendenti. I peggiori luoghi dove lavorare? Supermercato e fabbrica E sui contratti il Triveneto sceglie flessibilità e «federalismo»
Il lavoro al supermercato è all'ultimo posto in classifica (archivio)
VENEZIA — C’era una volta l’Orgoglio Operaio. Quel senso di appartenenza che spingeva la classe dei produttori per antonomasia a conquistare piazze e diritti sindacali, ma pure a costruire una forte identificazione con il proprio mestiere e con le buone cose, anche materiali, che ne scaturivano. Oggi fare l’operaio è, secondo la percezione dei lavoratori, l’ultimo gradino del prestigio sociale. Così in Italia, e così anche nel Nordest dove, un po’ a sorpresa, si indicano la fabbrica e il supermercato come i peggiori posti dove lavorare. Proprio l’area del Paese che più si è «sporcata le mani » con il lavoro manuale intenso e la produzione industriale, oggi prende quasi le distanze. Il ritratto proviene dalla ricerca promossa da Confindustria e curata da Daniele Marini (il direttore della Fondazione Nordest) per conto dell’Ufficio studi di viale dell’Astronomia. Presentato alle recenti Assise di Bergamo a porte chiuse, lo studio rivela altri aspetti di grande interesse sull’evoluzione «culturale» dei lavoratori nel rapporto con l’impresa.
Nel Triveneto prevale un atteggiamento pragmatico, che suggerisce scelte «federaliste»in tema di contrattazione e una larga disponibilità ad accettare forme di flessibilità. Il sondaggio tra i lavoratori dipendenti, dunque, colloca il mestiere di operaio in fondo alla graduatoria. Alla domanda sul «prestigio assegnato alle professioni, rispetto alla propria », il Nordest risponde che anche fare il contadino è meglio: 16,8% delle preferenze, penultimo posto, contro il misero 3,5% per l’operaio, ultimissimo. È un rovesciamento storico, se si pensa che prima si fuggiva dalle campagne per andare volentieri tra i macchinari. «E infatti - spiega Marini - solo dieci anni fa, nei sondaggi di questo tipo il rapporto era opposto nei giudizi dei lavoratori ». Cioé meglio operaio che contadino. Tutto ciò, rileva il ricercatore nella sua analisi, qualche problema lo dà: «Continuare a considerare il lavoro operaio e della fabbrica come "sporco, pesante" e di basso status ha effetti perversi, come quello di non spingere le giovani generazioni a intraprendere percorsi di formazione di natura professionale e tecnica, di cui il sistema produttivo ha forte necessità».
In cima al prestigio assegnato sta l’imprenditore, poi il libero professionista, quindi il lavoratore del settore pubblico, che conquista il 41% delle indicazioni, più che nella media italiana (38,1%). Ma dov’è finito il Nordest che «disprezza » l’impiegato statale? «Le risposte - spiega ancora Marini - fanno emergere anche il valore che si attribuisce alla sicurezza del posto, che è garantita dal settore pubblico. In questi anni di forte incertezza per l’occupazione, questa caratteristica diventa più importante». Tra i luoghi di lavoro preferiti, ancora l’ufficio pubblico (22,9%), la grande impresa privata (21,1%), la piccola (14,9%), poi via via fino alla fabbrica (2,3%) e al supermercato (1%). «Gli intervistati esprimono il proprio giudizio modulandolo secondo due direttrici: il potenziale percorso di carriera o la dimensione relazionale ». Ecco perché il supermercato e la fabbrica stanno in fondo: «Sono visti come luoghi spersonalizzanti. Non a caso stanno molto più in alto luoghi come la cooperativa o l’azienda artigiana, dove le relazioni con i colleghi o il proprietario sono sicuramente più intense». La platea degli industriali ha sicuramente colto con grande attenzione la «modernità» delle risposte sugli aspetti sindacali e contrattualistici. «Intanto - premette Marini - nel Nordest prevale un atteggiamento che io chiamo merito- solidale».
Alla domanda sulla «giustizia sociale attraverso il lavoro», la risposta più popolare fra gli intervistati è quella che indica come «necessarie uguali opportunità di partenza, ma poi ognuno deve farsi da sé». C’è attenzione quindi alla meritocrazia, e c’è anche maggior predisposizione verso il federalismo contrattuale. Ecco le risposte dal Triveneto: il livello di contrattazione aziendale raccoglie il 16,5% dei consensi, quello territoriale il 19,6%, quello «in parte nazionale, ma con molta autonomia aziendale e territoriale» addirittura il 44,9%. Tutti indicatori più alti rispetto alla media italiana, dove la contrattazione «esclusivamente nazionale » annovera il 26,7% delle preferenze, mentre il Nordest si ferma a quota 19%. Last but not least, il capitolo flessibilità. L’atteggiamento generale è di apertura: il 57,4% è disponibile a una maggiore flessibilità negli orari e nei turni di lavoro, pur di mantenere il posto; il 65,3% a svolgere nella stessa impresa compiti e mansioni diversi da quelli che si svolgono attualmente; il 63,9% a scambiare una maggiore flessibilità negli orari e nei turni di lavoro con una maggiore retribuzione. In epoca di polemiche sul modello Pomigliano, sembra una buona notizia per gli industriali e uno spunto di riflessione per il sindacato.
Claudio Trabona
03 giugno 2011
03 giugno 2011
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