STATO VEGETATIVO PERSISTENTE
Lo stato vegetativo persistente (si dice così quando tale condizione dura più di un mese, permanente quando la durata è indefinita, anche se ora si preferisce semplicemente parlare di stato vegetativo) è in genere la conseguenza di un grave trauma encefalico o di una grave e prolungata anossia cerebrale, da qualunque causa provocata (arresto cardiaco, avvelenamento da monossido di carbonio, ecc.).
Il soggetto in SVP non è cosciente, non esegue movimenti finalizzati, non avverte sensazioni, ma respira autonomamente o con l’aiuto di un respiratore, ha la funzione circolatoria, ha il suo metabolismo, può essere nutrito, urina e defeca.
Attualmente, anche sul piano legislativo, la morte di una persona si identifica con la morte del suo cervello, che si ha quando anche le funzioni vegetative elementari vengono meno. Tuttavia, se queste funzioni persistono, se cioè il tronco dell’encefalo non è lesionato, il soggetto non può essere dichiarato morto, anche se le funzioni corticali sono abolite. Le funzioni corticali sono quelle che mettono l’uomo in comunicazione con gli altri e con l’ambiente, e che gli consentono di pensare e di provare emozioni, di muoversi e di avvertire sensazioni.
I progressi delle tecniche rianimatorie hanno fatto aumentare il numero dei casi di morte corticale, di soggetti cioè che mantengono le funzioni vegetative, ma hanno perduto le funzioni superiori, a causa della necrosi della corteccia cerebrale.
Il concetto che è stato avanzato (e che sto avanzando) è quello della morte corticale, che ha suscitato numerosi ed aspri dibattiti e che nessuno Stato ha affrontato sul piano legislativo. Il mio personale punto di vista è che una persona in istato vegetativo persistente dovrebbe considerarsi già morta, anche se le sue funzioni vegetative persistono.
La (relativa) numerosità di questi casi pone gravi problemi di natura economica, assistenziale ed etica.
Infatti, l’assistenza a queste persone è molto costosa, sia per le famiglie e sia per i Servizi sanitari, e non sono sufficienti le strutture adibite all’assistenza di essa, essendo improponibile il ricovero prolungato in un reparto di Rianimazione. Sul piano etico, il problema si riduce a questo: che fare di questi malati?
Negli Stati nord-europei e dell’America del Nord, da tempo esistono i cosiddetti “testamenti di vita” o “testamenti biologici” o “direttive anticipate” attraverso i quali un soggetto esprime le sue volontà circa le possibili alternative terapeutiche, compreso il rifiuto della terapia, quando lui non sarà più in grado di prendere le decisioni perché privo di coscienza e della capacità di formularle. Tali testamenti biologici potrebbero applicarsi a questa situazione e anche ad altre simili. Su questo tema, vedi il capitolo CCXVI di A. G. Spagnolo e M. L . Di Pietro, “Testamenti di vita” (in Trattato di Medicina legale e Scienze affini, a cura di G. Giusti, vol. VII, pp. 49- 82, CEDAM, Padova 2005).
Come detto, i casi di SVP sono relativamente numerosi, ma per lo più non pongono problemi legali, se non per l’eventuale valutazione del danno. Problemi serissimi sorgono invece quando, per lo più da parte dei familiari, sorga la richiesta di interrompere le cure e l’assistenza. La ragione vera di tale richiesta sta nell’incapacità della famiglia di sopportare ancora una situazione del genere, sia sul piano dei costi economici sia sul piano affettivo. E’ una situazione condivisa in occidente, si ricordino i casi di Terry Schiavo negli Stati Uniti e di Eluana Englaro in Italia.
Questi casi, ma altri ve ne sono, potrebbero rappresentare, secondo alcuni, un “lasciar morire”, il “letting die” , secondo altri una sorta di eutanasia mascherata. Ma né il lasciar morire né l’eutanasia hanno finora ricevuto, nella gran parte dei Paesi, una soluzione legislativa, cosicché il tutto finisce per rimanere nel campo dell’etica e nella mani di un magistrato che non ha una norma su cui basarsi.
Allo stato delle cose, il problema non è risolvibile.
Sono passati venticinque anni e più da quando pubblicai una piccola opera sull’eutanasia (G. Giusti, Eutanasia: diritto di vivere/diritto di morire, CEDAM, 1983), puntando l’attenzione su taluni aspetti medico- giuridici e sociologici, e contrapponendo il diritto di vivere al diritto di morire. Una breve sintesi è pubblicata come capitolo del Trattato di Criminologia del Ferracuti .
In questi anni il dibattito etico, sempre intenso ma prevalentemente legato a posizioni di carattere religioso, è tuttavia sfociato in alcune leggi, che hanno ancor più alimentato questo dibattito. Nel momento in cui scrivo sono leggi dello Stato quella dell’Oregon, quella dell’Olanda e quella del Belgio. In altri Stati leggi analoghe sono in preparazione.
Il punto di vista sociale sull’eutanasia è dunque mutato, e l’eutanasia, se compiuta entro i limiti consentiti dalla legge, non è più reato in quei Paesi. Si sta verificando qualcosa di analogo a quello che è accaduto per l’interruzione volontaria della gravidanza. La progressiva secolarizzazione della vita attuale porta evidentemente con sé anche il germe dell’annullamento della vita stessa, se non vi sono buone ragioni per continuare a viverla. Nelle leggi citate, tuttavia, sono ben forti i principi di un’etica laica che è degna di grande rispetto e attenzione.
I casi di eutanasia che giungono all’attenzione del grande pubblico sono molto pochi, e usualmente sono giudicati dalle Corti d’Assise con grande comprensione, eppur nel rispetto delle leggi del nostro Paese. Vi è ragione di credere, tuttavia, che i casi reali, che non emergono, siano assai più numerosi, in particolare tra i pazienti terminali in età avanzata, ricoverati in ospedali o in istituzioni analoghe. E’ stata avanzata l’ipotesi che tali decessi siano causati dai familiari e/o dai medici di quei pazienti, vuoi per la sottrazione delle cure, vuoi per la somministrazione di farmaci analgesici (usualmente, morfina) in quantità relativamente elevate. In mancanza di adeguate indagini, anche soltanto cliniche, non pare possibile dare una risposta accettabile. Anche perché la sottrazione di cure o la somministrazione di analgesici in eccesso non rispondono necessariamente all’intenzione di uccidere quel malato, ma potrebbero rispondere alla volontà di non farlo soffrire e di non impegnarsi in un inutile accanimento terapeutico. Il discrimine non è facile da valutare.
Con questo, io non intendo giustificare condotte sanitarie eventualmente lesive degli interessi del paziente, ma soltanto far comprendere al Lettore, e sia pure in poche righe, quanto complesse siano le problematiche di natura sociale e bioetica riguardanti l’eutanasia, il lasciar morire, l’accanimento terapeutico.
Sul tema dell’eutanasia, vedi anche G. Giusti, Norme sul suicidio assistito e sull’eutanasia, in Trattato di Medicina legale e Scienze affini, vol. VII, pp. 137- 166, CEDAM, Padova 2005.
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