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Eternit, al via il maxi processo Vertici sotto accusa per morti amianto
Tremila parti lese, alla sbarra i due responsabili della multinazionale
10 dicembre, 09:29
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Eternit, via al maxi processo
TORINO - Folla davanti al tribunale di Torino, per l'inizio del maxiprocesso Eternit. Sono almeno un centinaio le persone, provenienti dall'Italia e dall'estero, che manifestano di fronte al tribunale in attesa che abbia inizio il dibattimento del più grande processo d'Europa. All'udienza sono attese 2 mila persone. Sono una decina di pullman che stanno arrivando al Palagiustizia. Trasportano i parenti delle quasi 3 mila vittime dell'amianto, le quasi 700 parti civili, sindaci e amministratori della zona di Casale Monferrato, dove aveva sede il più grande stabilimento italiano della Eternit. Tanti gli striscioni esposti, tra i quali quelli delle associazioni vittime dell'amianto di Italia, Svizzera e Francia.
"Signor Stephan Schmidheiny: la attendiamo anche in Svizzera", è lo striscione dell'associazione svizzera delle vittime dell'amianto, appeso alla cancellata del tribunale e circondato dai nomi di alcune delle vittime Eternit. Di fronte al tribunale si stanno inoltre radunando i partecipanti al corteo organizzato dalla Rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro, in concomitanza con l'apertura del processo e a pochi giorni dal secondo anniversario del rogo della Thyssenkrupp. Vi aderiscono, oltre ai sindacati e alle associazioni dei lavoratori, anche i giovani dei centri sociali. Presenti numerosi rappresentanti dei lavoratori delle vittime della Eternit di Svizzera, Francia e Belgio. "Un solo essere umano - si legge sullo striscione dei minatori francesi - ha più valore che tutto l'amianto e il profitto del mondo" (10 DICEMBRE 2009)
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giovedì 10 dicembre 2009
domenica 18 gennaio 2009
TRASFUSIONE DI SANGUE
Muore dopo la trasfuzione forzata
Medici condannati: "Violata la Costituzione"
"C’è una dignità anche nel processo del morire" ed è la Costituzione a garantirlo. Una sentenza del tribunale civile di Milano condanna un ospedale e quattro medici a risarcire la vedova di un paziente per danni morali e biologici: suo marito, testimone di Geova, morì durante una trasfusione di sangue che aveva rifiutato. E il pensiero va a Eluana Englaro
di Oriana Liso
"C’è una dignità anche nel processo del morire" ed è la Costituzione a garantirlo. Una dignità che nessun medico, anche se spinto dalle migliori intenzioni di cura e salvezza del paziente, può dimenticare. C’è una dignità nel morire e c’è un diritto a rifiutare un tipo di cura pur volendo continuare a vivere. Se questo diritto viene negato, qualcuno ne deve rispondere perché si scongiuri il rischio "che nell’intervento terapeutico l’attenzione si sposti dalla cura della persona alla cura in quanto tale".
La sentenza del tribunale civile di Milano che condanna un ospedale e quattro medici a risarcire la vedova di un paziente per danni morali e biologici è di un mese fa. Un uomo si ammala di tumore, una neoplasia gastrica maligna. Viene ricoverato in un ospedale milanese, i medici gli spiegano che sarà necessaria una trasfusione: ma lui è ministro di culto dei Testimoni di Geova, la sua religione non consente le trasfusioni. Così si fa trasferire in un’altra struttura, sempre a Milano. Qui — come riassume il giudice Iole Fontanella — ha rassicurazioni che la sua volontà — messa anche per iscritto — verrà rispettata. Ma tutto precipita in pochi giorni: l’uomo sta molto male, serve una trasfusione a cui lui, i suoi familiari e i suoi amici si oppongono.
"I sanitari chiedono un consulto psichiatrico da cui non emerge alcuna alterazione mentale". L’ospedale allora si fa autorizzare dal magistrato e pratica al paziente un trattamento sanitario obbligatorio che segna l’epilogo drammatico della storia. La polizia allontana i parenti e gli amici, l’uomo viene bloccato a letto e, mentre si dimena, grida che non vuole la trasfusione, prega i medici, gli vengono somministrate due sacche di sangue. Si sta per procedere con la terza ma il cuore dell’uomo cede. Un infarto.
La denuncia penale si risolve con una archiviazione perché non c’è reato. Ma il punto, nel processo civile, è un altro, e viene affrontato dal giudice anche e soprattutto alla luce della sentenza 21748 della Cassazione. La sentenza su Eluana. "Il collegio dei periti — scrive il giudice — che non ha avuto alcun dubbio nel riconoscere che la trasfusione era l’unica scelta praticabile, ha invece espresso sconcerto e imbarazzante perplessità di fronte a un comportamento dei sanitari così palesemente inadeguato e brutale", perché lo stress della trasfusione coatta "ha avuto senz’altro un ruolo concausale nel del decesso".
E ancora: "I sanitari hanno violato elementari precetti deontologici e del vivere civile. C’è una dignità anche nel processo del morire che al paziente è stata negata: tutto ciò non ha niente a che fare con i concetti di cura e di prestazione sanitaria salvavita". Per il giudice Fontanella l’errore dei medici non sta nell’aver valutato la trasfusione come unico modo per salvare la vita al loro paziente. Ma nell’aver imposto quella decisione senza pensare alla "proporzionalità e l’adeguatezza" dell’ azione rispetto al fine.
(17 gennaio 2009) (da repubblica.it di Milano)
Medici condannati: "Violata la Costituzione"
"C’è una dignità anche nel processo del morire" ed è la Costituzione a garantirlo. Una sentenza del tribunale civile di Milano condanna un ospedale e quattro medici a risarcire la vedova di un paziente per danni morali e biologici: suo marito, testimone di Geova, morì durante una trasfusione di sangue che aveva rifiutato. E il pensiero va a Eluana Englaro
di Oriana Liso
"C’è una dignità anche nel processo del morire" ed è la Costituzione a garantirlo. Una dignità che nessun medico, anche se spinto dalle migliori intenzioni di cura e salvezza del paziente, può dimenticare. C’è una dignità nel morire e c’è un diritto a rifiutare un tipo di cura pur volendo continuare a vivere. Se questo diritto viene negato, qualcuno ne deve rispondere perché si scongiuri il rischio "che nell’intervento terapeutico l’attenzione si sposti dalla cura della persona alla cura in quanto tale".
La sentenza del tribunale civile di Milano che condanna un ospedale e quattro medici a risarcire la vedova di un paziente per danni morali e biologici è di un mese fa. Un uomo si ammala di tumore, una neoplasia gastrica maligna. Viene ricoverato in un ospedale milanese, i medici gli spiegano che sarà necessaria una trasfusione: ma lui è ministro di culto dei Testimoni di Geova, la sua religione non consente le trasfusioni. Così si fa trasferire in un’altra struttura, sempre a Milano. Qui — come riassume il giudice Iole Fontanella — ha rassicurazioni che la sua volontà — messa anche per iscritto — verrà rispettata. Ma tutto precipita in pochi giorni: l’uomo sta molto male, serve una trasfusione a cui lui, i suoi familiari e i suoi amici si oppongono.
"I sanitari chiedono un consulto psichiatrico da cui non emerge alcuna alterazione mentale". L’ospedale allora si fa autorizzare dal magistrato e pratica al paziente un trattamento sanitario obbligatorio che segna l’epilogo drammatico della storia. La polizia allontana i parenti e gli amici, l’uomo viene bloccato a letto e, mentre si dimena, grida che non vuole la trasfusione, prega i medici, gli vengono somministrate due sacche di sangue. Si sta per procedere con la terza ma il cuore dell’uomo cede. Un infarto.
La denuncia penale si risolve con una archiviazione perché non c’è reato. Ma il punto, nel processo civile, è un altro, e viene affrontato dal giudice anche e soprattutto alla luce della sentenza 21748 della Cassazione. La sentenza su Eluana. "Il collegio dei periti — scrive il giudice — che non ha avuto alcun dubbio nel riconoscere che la trasfusione era l’unica scelta praticabile, ha invece espresso sconcerto e imbarazzante perplessità di fronte a un comportamento dei sanitari così palesemente inadeguato e brutale", perché lo stress della trasfusione coatta "ha avuto senz’altro un ruolo concausale nel del decesso".
E ancora: "I sanitari hanno violato elementari precetti deontologici e del vivere civile. C’è una dignità anche nel processo del morire che al paziente è stata negata: tutto ciò non ha niente a che fare con i concetti di cura e di prestazione sanitaria salvavita". Per il giudice Fontanella l’errore dei medici non sta nell’aver valutato la trasfusione come unico modo per salvare la vita al loro paziente. Ma nell’aver imposto quella decisione senza pensare alla "proporzionalità e l’adeguatezza" dell’ azione rispetto al fine.
(17 gennaio 2009) (da repubblica.it di Milano)
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testimonio di Geova,
trasfusioni
venerdì 20 luglio 2007
CONVIVENTE OMOSESSUALE PARTE CIVILE
Un omosessuale è stato ucciso in casa da un rumeno. Il convivente ha chiesto di potersi costituire parte civile, e il GIP ha accettato, ritenendo documentalmente provato il rapporto di convivenza, ed il diritto all'eventuale risarcimento del danno. E' la prima volta che accade. E' aperta la possibilità di superare per via giudiziaria una legge che non arriva. Leggi qui la storia dal corriere.it
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2007/07_Luglio/20/gay_ucciso_compagno_parte_civile.shtml
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2007/07_Luglio/20/gay_ucciso_compagno_parte_civile.shtml
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