Trieste: ubriaco su Tir contromano
uccide padre e figlioletta di 17 mesi
L'autista, di nazionalità turca, è risultato positivo all'alcol-test. Coinvolte molte auto, tre i feriti
MILANO - Ubriaco alla guida di un Tir contromano. Sarebbe questa, secondo i primi accertamenti, la causa del grave incidente stradale nel quale domenica sera hanno perso la vita un uomo e la figlia di 17 mesi sull'autostrada A4 nel raccordo Sistiana-Trieste. Ad accertare lo stato di alterazione dell'autista, V. B., 55 anni, di nazionalità turca, è stato il risultato dell'alcol-test al quale è stato sottoposto in ospedale dove era stato portato subito dopo l'incidente e dove si trova ora in stato di fermo.
DINAMICA - La dinamica dello scontro nel quale hanno perso la vita il triestino M. G., 36 anni, e la piccola figlia, è stato in gran parte ricostruito grazie alle telecamere del tratto di autostrada in cui è avvenuto l'incidente. Le telecamere hanno infatti registrato il passaggio di un Tir contromano pochi istanti prima del grave incidente che ha coinvolto numerose autovetture e il ferimento di almeno altre tre persone. Il camion - ha spiegato un portavoce dall'Anas - si è immesso in senso contrario e probabilmente arrivava dal vicino interporto di Fernetti. I tecnici della sala di controllo dell'Anas hanno notato il passaggio del Tir, ma era troppo tardi per intervenire. Le registrazioni saranno ora a disposizione per chiarire con precisione la dinamica del sinistro che ha creato una fila di alcuni chilometri. (fonte: Ansa)
lunedì 7 febbraio 2011
Requiescat in pace
Bollea, tutta la vita
dalla parte dei bambini
Giovanni Bollea, il padre della neuropsichiatria infantile,
Morto a 97 anni il padre della neuropsichiatria infantile in Italia. Una vocazione nata da piccolo, durante una visita al Cottolengo
PIERO BIANUCCI
Se n’è andato ieri Giovanni Bollea, fondatore della neuropsichiatria infantile in Italia, grande vecchio che tanto ha fatto per i più piccoli e indifesi: bambini Down, bambini con lesioni cerebrali, bambini e adolescenti senza malanni fisici ma traumatizzati nell’anima da famiglie divise, abbandoni, violenze.
Nato a Cigliano Vercellese, aveva compiuto 97 anni il 5 dicembre in un letto del Policlinico Gemelli di Roma. Dal 12 agosto, quando una ischemia cerebrale lo trascinò nel buio del coma, lottava per strappare ancora qualche giorno, qualche mese, e quasi aveva vinto, perché dal coma era uscito, aveva ripreso a comunicare con il mondo – la moglie Marika, i sei figli – sia pure debolmente.
Sapeva di avere una missione da compiere: mettere al sicuro la disciplina scientifica che aveva fondato e portato a dignità accademica nel nostro paese. Perché oggi la neuropsichiatria infantile rischia di scomparire dal panorama medico italiano, travolta nell’alluvione di tagli più o meno indiscriminati all’Università. Sotto il governo Berlusconi, e con il cambio di colore politico alla Regione Lazio, si è fatto strada il progetto di riassorbirla nella pediatria. Mentre Giovanni Bollea ha dedicato la sua esistenza proprio a staccarla dalla medicina pediatrica, convinto com’era che la sofferenza psichica non sempre, e mai del tutto, è riconducibile a una base organica. Se la pediatria si occupa dell’organismo del bambino, pensava, altrettanto necessaria è una scienza che si occupi della sua mente e dei suoi malfunzionamenti. Perché sono malfunzionamenti che in alcuni casi hanno origini fisiologiche, genetiche, traumatiche, ma in altri casi affondano invece le radici in problemi di relazioni umane, e le relazioni umane non sono materia per il medico ma, appunto, per un neuropsichiatra che, come Bollea, abbia sviluppato una sensibilità diversa verso la mente dei bambini, conosca la psicoanalisi infantile, e quindi Anna Freud, che ne fu pioniera. Ma neppure questo è sufficiente: intorno al bambino con disagio psichico Bollea voleva tessere una rete che oltre ai medici specializzati includesse genitori, familiari, insegnanti, pedagogisti, psicologi, assistenti sociali.
Gli ultimi mesi della vita di Bollea sono stati segnati da un appello per tutelare l’indipendenza, e prima ancora il ruolo, della facoltà di Neuropsichiatria infantile dell’Università La Sapienza di Roma e del relativo Istituto neuropsichiatrico in via dei Sabelli che lui aveva fatto nascere. «Non distruggete la mia casa dei bambini», è stato il suo ultimo grido.
Bollea si era laureato in medicina nel 1938 a Torino e si era specializzato in malattie mentali. Constatando come nel nostro Paese fosse scarsa l’attenzione al disagio psichico nei bambini e negli adolescenti, era andato a specializzarsi in psichiatria infantile a Losanna, in Svizzera, costeggiando anche l’ambiente pedagogico di Piaget. Con quel bagaglio torna in Italia e negli Anni 50 rivoluziona la neuropsichiatria infantile introducendo per la prima volta nel nostro Paese la psicoanalisi e – soprattutto – la psicoterapia di gruppo: lo guidava l’idea che sono le relazioni umane a curare e ad aver bisogno di essere curate, anche quando la malattia ha un substrato organico o genetico. Erano tempi nei quali i Down avevano una limitatissima aspettativa di vita ed erano chiusi in un ghetto sociale. Bollea fece maturare il processo che li ha inseriti nella società e nel lavoro, triplicando nel contempo la loro esistenza.
Duecentocinquanta pubblicazioni scientifiche, un trattato di neuropsichiatria infantile e molti libri rivolti anche ai non addetti ai lavori sono l’eredità di Bollea, con un bestseller edito da Feltrinelli dal titolo provocatorio Le madri non sbagliano mai . Tanti riconoscimenti (laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione all’Università di Urbino, Premio Unicef, Premio alla carriera al Congresso mondiale di psichiatria e psicologia infantile che si tenne a Berlino nel 2004). Ma non erano queste le cose che gli interessavano. «La più grande mia gioia nella vita è ridare il sorriso ai bambini e ai ragazzi che l’avevano perduto», diceva. Ed è emblematico che abbia fondato anche l’Alvi, «Alberi per la vita», associazione privata per il rimboschimento dell’Italia.
Intorno aveva una famiglia da patriarca: sei figli (Ernesto, Mariarosa e Daniele avuti nel primo matrimonio con Renata Jesi; Barbara, Arturo e Marco nati dalla seconda moglie Marika e dal suo primo marito ma cresciuti con lui), sette nipoti, tredici bisnipoti.
Raccontava di aver sentito la sua vocazione all’età di sette anni visitando il Cottolengo a Torino. Una suora gli disse: «Questi bambini disgraziati saranno i primi a entrare in paradiso», e lui, con la voce dell’innocenza: «Perché invece non provate a curarli?». Vicino al Cottolengo, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, era cresciuto: una concentrazione di miseria e svantaggio fisico e sociale. Poi il liceo frequentato lavorando nel pastificio ereditato dalla bisnonna in via Po, il matrimonio con l’ebrea Renata Jesi e le conseguenti persecuzioni razziali, la campagna di Russia, durante la quale era costretto a operare i compagni feriti senza anestesia. Infine l’Istituto creato a Roma, che diventa subito un riferimento scientifico e «politico» per tutta l’Europa. Negli ultimi tempi la sua attenzione aveva colto fenomeni nuovi: l’esposizione dei ragazzi alla violenza sugli schermi televisivi, l’onnipresenza alienante dei videogiochi, l’oscillare dei genitori tra lassismo e costrizione. Scuola, famiglia e società in crisi, mentre per Bollea solo la loro cooperazione può darci un mondo migliore.
dalla parte dei bambini
Giovanni Bollea, il padre della neuropsichiatria infantile,
Morto a 97 anni il padre della neuropsichiatria infantile in Italia. Una vocazione nata da piccolo, durante una visita al Cottolengo
PIERO BIANUCCI
Se n’è andato ieri Giovanni Bollea, fondatore della neuropsichiatria infantile in Italia, grande vecchio che tanto ha fatto per i più piccoli e indifesi: bambini Down, bambini con lesioni cerebrali, bambini e adolescenti senza malanni fisici ma traumatizzati nell’anima da famiglie divise, abbandoni, violenze.
Nato a Cigliano Vercellese, aveva compiuto 97 anni il 5 dicembre in un letto del Policlinico Gemelli di Roma. Dal 12 agosto, quando una ischemia cerebrale lo trascinò nel buio del coma, lottava per strappare ancora qualche giorno, qualche mese, e quasi aveva vinto, perché dal coma era uscito, aveva ripreso a comunicare con il mondo – la moglie Marika, i sei figli – sia pure debolmente.
Sapeva di avere una missione da compiere: mettere al sicuro la disciplina scientifica che aveva fondato e portato a dignità accademica nel nostro paese. Perché oggi la neuropsichiatria infantile rischia di scomparire dal panorama medico italiano, travolta nell’alluvione di tagli più o meno indiscriminati all’Università. Sotto il governo Berlusconi, e con il cambio di colore politico alla Regione Lazio, si è fatto strada il progetto di riassorbirla nella pediatria. Mentre Giovanni Bollea ha dedicato la sua esistenza proprio a staccarla dalla medicina pediatrica, convinto com’era che la sofferenza psichica non sempre, e mai del tutto, è riconducibile a una base organica. Se la pediatria si occupa dell’organismo del bambino, pensava, altrettanto necessaria è una scienza che si occupi della sua mente e dei suoi malfunzionamenti. Perché sono malfunzionamenti che in alcuni casi hanno origini fisiologiche, genetiche, traumatiche, ma in altri casi affondano invece le radici in problemi di relazioni umane, e le relazioni umane non sono materia per il medico ma, appunto, per un neuropsichiatra che, come Bollea, abbia sviluppato una sensibilità diversa verso la mente dei bambini, conosca la psicoanalisi infantile, e quindi Anna Freud, che ne fu pioniera. Ma neppure questo è sufficiente: intorno al bambino con disagio psichico Bollea voleva tessere una rete che oltre ai medici specializzati includesse genitori, familiari, insegnanti, pedagogisti, psicologi, assistenti sociali.
Gli ultimi mesi della vita di Bollea sono stati segnati da un appello per tutelare l’indipendenza, e prima ancora il ruolo, della facoltà di Neuropsichiatria infantile dell’Università La Sapienza di Roma e del relativo Istituto neuropsichiatrico in via dei Sabelli che lui aveva fatto nascere. «Non distruggete la mia casa dei bambini», è stato il suo ultimo grido.
Bollea si era laureato in medicina nel 1938 a Torino e si era specializzato in malattie mentali. Constatando come nel nostro Paese fosse scarsa l’attenzione al disagio psichico nei bambini e negli adolescenti, era andato a specializzarsi in psichiatria infantile a Losanna, in Svizzera, costeggiando anche l’ambiente pedagogico di Piaget. Con quel bagaglio torna in Italia e negli Anni 50 rivoluziona la neuropsichiatria infantile introducendo per la prima volta nel nostro Paese la psicoanalisi e – soprattutto – la psicoterapia di gruppo: lo guidava l’idea che sono le relazioni umane a curare e ad aver bisogno di essere curate, anche quando la malattia ha un substrato organico o genetico. Erano tempi nei quali i Down avevano una limitatissima aspettativa di vita ed erano chiusi in un ghetto sociale. Bollea fece maturare il processo che li ha inseriti nella società e nel lavoro, triplicando nel contempo la loro esistenza.
Duecentocinquanta pubblicazioni scientifiche, un trattato di neuropsichiatria infantile e molti libri rivolti anche ai non addetti ai lavori sono l’eredità di Bollea, con un bestseller edito da Feltrinelli dal titolo provocatorio Le madri non sbagliano mai . Tanti riconoscimenti (laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione all’Università di Urbino, Premio Unicef, Premio alla carriera al Congresso mondiale di psichiatria e psicologia infantile che si tenne a Berlino nel 2004). Ma non erano queste le cose che gli interessavano. «La più grande mia gioia nella vita è ridare il sorriso ai bambini e ai ragazzi che l’avevano perduto», diceva. Ed è emblematico che abbia fondato anche l’Alvi, «Alberi per la vita», associazione privata per il rimboschimento dell’Italia.
Intorno aveva una famiglia da patriarca: sei figli (Ernesto, Mariarosa e Daniele avuti nel primo matrimonio con Renata Jesi; Barbara, Arturo e Marco nati dalla seconda moglie Marika e dal suo primo marito ma cresciuti con lui), sette nipoti, tredici bisnipoti.
Raccontava di aver sentito la sua vocazione all’età di sette anni visitando il Cottolengo a Torino. Una suora gli disse: «Questi bambini disgraziati saranno i primi a entrare in paradiso», e lui, con la voce dell’innocenza: «Perché invece non provate a curarli?». Vicino al Cottolengo, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, era cresciuto: una concentrazione di miseria e svantaggio fisico e sociale. Poi il liceo frequentato lavorando nel pastificio ereditato dalla bisnonna in via Po, il matrimonio con l’ebrea Renata Jesi e le conseguenti persecuzioni razziali, la campagna di Russia, durante la quale era costretto a operare i compagni feriti senza anestesia. Infine l’Istituto creato a Roma, che diventa subito un riferimento scientifico e «politico» per tutta l’Europa. Negli ultimi tempi la sua attenzione aveva colto fenomeni nuovi: l’esposizione dei ragazzi alla violenza sugli schermi televisivi, l’onnipresenza alienante dei videogiochi, l’oscillare dei genitori tra lassismo e costrizione. Scuola, famiglia e società in crisi, mentre per Bollea solo la loro cooperazione può darci un mondo migliore.
area dei delitti
Inghilterra, arriva online
la mappa dei crimini
Si potrà conoscere quanti furti sono avvenuti nel proprio quartiere oppure quante macchine sono state rubate
(dal web) MILANO - Le mappe interattive che raccontano tutti i crimini commessi nelle strade dell'Inghilterra e del Galles. Da martedì i cittadini anglosassoni potranno sapere quanti furti sono avvenuti nel proprio quartiere oppure quante macchine sono state danneggiate o rubate nella zona in cui vivono. Il Ministero dell'Interno ha lanciato il primo servizio online che fotografa mensilmente i crimini perpetrati in tutto il territorio nazionale. Basterà collegarsi al sito web della polizia e inserire il codice postale della propria abitazione: in pochi secondi gli utenti potranno sapere dettagliatamente che cosa è accaduto in tutta l'area negli ultimi 30 giorni.
TUTELA DELLA PRIVACY - Il ministro dell'interno Theresa May ha rivelato che le mappe interattive non comprometteranno né la privacy delle vittime dei reati né quella dei testimoni. Il servizio, che è costato circa 300.000 sterline (circa 351.000 euro), informa gli utenti anche quanti poliziotti lavorano nei vari quartieri e le loro responsabilità. Per ogni strada sono presenti i risultati di sei tipologie di reati: rapine, furti, crimini su automobili, violenze, comportamenti antisociali e violenze sessuali. Quest'ultimi però sono inclusi nella voce «altri crimini» in modo da evitare che la vittima e il luogo dove è avvenuta la violenza possano essere identificati. Dando un rapido sguardo alle mappe interattive si scopre che la strada britannica dove sono avvenuti in generale più reati nello scorso dicembre è Glover's Court, a Preston, nella contea del Lancashire. Qui - rivela il servizio - sono avvenuti ben 152 crimini. Quella con più furti (dieci in totale a dicembre) è Fairfield Drive a Bury, nella periferia di Manchester mentre il record dei comportamenti antisociali (settantanove) lo conquista la via «Newgate Street» di Newcastle.
TROPPO TRAFFICO - L'arrivo di questo innovativo servizio ha tanto incuriosito i cittadini britannici che martedì mattina - come racconta il sito web di Skynews hanno presto d'assalto il sito della polizia. Alla fine, proprio a causa dell'eccessivo traffico, la pagina web si è a lungo bloccata. David Moore, direttore di Rock Kitchen Harris, la società di Leicester che ha ideato le mappe interattive, si è scusato con gli utenti e ha promesso che presto il sito web ricomincerà a funzionare senza problemi: «Nelle prime ore abbiamo ricevuto almeno 4-5 milioni di contatti. - ha spiegato a Skynews - È un numero incredibile ed è un ottimo risultato».
ABBATTERE IL CRIMINE - Secondo il ministro dell'interno Theresa May le mappe interattive aiuteranno la polizia, supportata dai cittadini, nella battaglia contro il crimine: «Sono certa che la reazione degli inglesi sarà positiva - ha commentato il ministro - Credo che la gente apprezzerà il fatto che potrà sapere quali crimini sono più frequenti in tutta la loro area e non solo nella loro strada o nel loro quartiere. I cittadini sentiranno la polizia più vicina e avranno più informazioni su dove possono andare e dove lavorare. Sono sicura che con il passare del tempo grazie alle mappe interattive e all'aiuto dei cittadini riusciremo a dare un duro colpo alla criminalità e a diminuire i reati». Tuttavia c'è chi teme che la pubblicazioni di dati così precisi possa far calare vertiginosamente i prezzi delle abitazioni che si trovano nei quartieri dove avvengono più reati. Il ministro Nick Herbert non sembra essere d'accordo e poi aggiunge: «Anche se fosse vero non sarebbe una buona ragione per non dire alla gente cosa accade nei nostri quartieri - dice Herbert al Guardian di Londra. Il crimine non può essere nascosto sotto il tappeto».
Francesco Tortora
01 febbraio 2011(ultima modifica: 02 febbraio 2011)
la mappa dei crimini
Si potrà conoscere quanti furti sono avvenuti nel proprio quartiere oppure quante macchine sono state rubate
(dal web) MILANO - Le mappe interattive che raccontano tutti i crimini commessi nelle strade dell'Inghilterra e del Galles. Da martedì i cittadini anglosassoni potranno sapere quanti furti sono avvenuti nel proprio quartiere oppure quante macchine sono state danneggiate o rubate nella zona in cui vivono. Il Ministero dell'Interno ha lanciato il primo servizio online che fotografa mensilmente i crimini perpetrati in tutto il territorio nazionale. Basterà collegarsi al sito web della polizia e inserire il codice postale della propria abitazione: in pochi secondi gli utenti potranno sapere dettagliatamente che cosa è accaduto in tutta l'area negli ultimi 30 giorni.
TUTELA DELLA PRIVACY - Il ministro dell'interno Theresa May ha rivelato che le mappe interattive non comprometteranno né la privacy delle vittime dei reati né quella dei testimoni. Il servizio, che è costato circa 300.000 sterline (circa 351.000 euro), informa gli utenti anche quanti poliziotti lavorano nei vari quartieri e le loro responsabilità. Per ogni strada sono presenti i risultati di sei tipologie di reati: rapine, furti, crimini su automobili, violenze, comportamenti antisociali e violenze sessuali. Quest'ultimi però sono inclusi nella voce «altri crimini» in modo da evitare che la vittima e il luogo dove è avvenuta la violenza possano essere identificati. Dando un rapido sguardo alle mappe interattive si scopre che la strada britannica dove sono avvenuti in generale più reati nello scorso dicembre è Glover's Court, a Preston, nella contea del Lancashire. Qui - rivela il servizio - sono avvenuti ben 152 crimini. Quella con più furti (dieci in totale a dicembre) è Fairfield Drive a Bury, nella periferia di Manchester mentre il record dei comportamenti antisociali (settantanove) lo conquista la via «Newgate Street» di Newcastle.
TROPPO TRAFFICO - L'arrivo di questo innovativo servizio ha tanto incuriosito i cittadini britannici che martedì mattina - come racconta il sito web di Skynews hanno presto d'assalto il sito della polizia. Alla fine, proprio a causa dell'eccessivo traffico, la pagina web si è a lungo bloccata. David Moore, direttore di Rock Kitchen Harris, la società di Leicester che ha ideato le mappe interattive, si è scusato con gli utenti e ha promesso che presto il sito web ricomincerà a funzionare senza problemi: «Nelle prime ore abbiamo ricevuto almeno 4-5 milioni di contatti. - ha spiegato a Skynews - È un numero incredibile ed è un ottimo risultato».
ABBATTERE IL CRIMINE - Secondo il ministro dell'interno Theresa May le mappe interattive aiuteranno la polizia, supportata dai cittadini, nella battaglia contro il crimine: «Sono certa che la reazione degli inglesi sarà positiva - ha commentato il ministro - Credo che la gente apprezzerà il fatto che potrà sapere quali crimini sono più frequenti in tutta la loro area e non solo nella loro strada o nel loro quartiere. I cittadini sentiranno la polizia più vicina e avranno più informazioni su dove possono andare e dove lavorare. Sono sicura che con il passare del tempo grazie alle mappe interattive e all'aiuto dei cittadini riusciremo a dare un duro colpo alla criminalità e a diminuire i reati». Tuttavia c'è chi teme che la pubblicazioni di dati così precisi possa far calare vertiginosamente i prezzi delle abitazioni che si trovano nei quartieri dove avvengono più reati. Il ministro Nick Herbert non sembra essere d'accordo e poi aggiunge: «Anche se fosse vero non sarebbe una buona ragione per non dire alla gente cosa accade nei nostri quartieri - dice Herbert al Guardian di Londra. Il crimine non può essere nascosto sotto il tappeto».
Francesco Tortora
01 febbraio 2011(ultima modifica: 02 febbraio 2011)
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domenica 6 febbraio 2011
omicidio- suicidio
omicidio-suicidio a Bologna
Uccide moglie e figlio e si spara
Era già stato arrestato per stalking
L'uomo ha fatto fuoco contro la moglie e il figlio
e poi si è tolto la vita
omicidio-suicidio a Bologna
Uccide moglie e figlio e si spara
Era già stato arrestato per stalking
L'uomo ha fatto fuoco contro la moglie e il figlio
e poi si è tolto la vita
BOLOGNA - Tragedia famigliare a Bologna: un uomo, già arrestato per stalking, ha ucciso moglie e figlioletto e poi si è sparato. Due dei cadaveri - la donna e il ragazzino - sono stati trovati all'interno di un'auto, mentre quello del marito era a pochi passa dalla vettura, vicino al garage di un condominio in via della Guardia, nella periferia della città.
GIA' ARRESTATO PER STALKING - L'uomo di 48 anni che ha compiuto la strage era già stato arrestato per stalking, proprio nei confronti della stessa donna. Dopo la scarcerazione, aveva avuto l'obbligo di non avvicinarla. Lei aveva 32 anni ed era marocchina. Quanto è emerso dalla ricostruzione della polizia rafforza il quadro della complicata separazione fra i due che, fin dai primi accertamenti, è subito emersa come probabile movente della strage familiare. L'allarme al 113 è giunto verso le 13. Madre e bimbo sono stati trovati dagli agenti nell'auto, nella parte comune dei box, l'uomo a qualche metro di distanza; la pistola era vicina al suo corpo. Proprio lui risultava residente nel condominio di via della Guardia, anche se pare non vi alloggiasse.
06 febbraio 2011
Uccide moglie e figlio e si spara
Era già stato arrestato per stalking
L'uomo ha fatto fuoco contro la moglie e il figlio
e poi si è tolto la vita
omicidio-suicidio a Bologna
Uccide moglie e figlio e si spara
Era già stato arrestato per stalking
L'uomo ha fatto fuoco contro la moglie e il figlio
e poi si è tolto la vita
BOLOGNA - Tragedia famigliare a Bologna: un uomo, già arrestato per stalking, ha ucciso moglie e figlioletto e poi si è sparato. Due dei cadaveri - la donna e il ragazzino - sono stati trovati all'interno di un'auto, mentre quello del marito era a pochi passa dalla vettura, vicino al garage di un condominio in via della Guardia, nella periferia della città.
GIA' ARRESTATO PER STALKING - L'uomo di 48 anni che ha compiuto la strage era già stato arrestato per stalking, proprio nei confronti della stessa donna. Dopo la scarcerazione, aveva avuto l'obbligo di non avvicinarla. Lei aveva 32 anni ed era marocchina. Quanto è emerso dalla ricostruzione della polizia rafforza il quadro della complicata separazione fra i due che, fin dai primi accertamenti, è subito emersa come probabile movente della strage familiare. L'allarme al 113 è giunto verso le 13. Madre e bimbo sono stati trovati dagli agenti nell'auto, nella parte comune dei box, l'uomo a qualche metro di distanza; la pistola era vicina al suo corpo. Proprio lui risultava residente nel condominio di via della Guardia, anche se pare non vi alloggiasse.
06 febbraio 2011
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Stato Vegetativo Persistente
STATO VEGETATIVO PERSISTENTE
Lo stato vegetativo persistente (si dice così quando tale condizione dura più di un mese, permanente quando la durata è indefinita, anche se ora si preferisce semplicemente parlare di stato vegetativo) è in genere la conseguenza di un grave trauma encefalico o di una grave e prolungata anossia cerebrale, da qualunque causa provocata (arresto cardiaco, avvelenamento da monossido di carbonio, ecc.).
Il soggetto in SVP non è cosciente, non esegue movimenti finalizzati, non avverte sensazioni, ma respira autonomamente o con l’aiuto di un respiratore, ha la funzione circolatoria, ha il suo metabolismo, può essere nutrito, urina e defeca.
Attualmente, anche sul piano legislativo, la morte di una persona si identifica con la morte del suo cervello, che si ha quando anche le funzioni vegetative elementari vengono meno. Tuttavia, se queste funzioni persistono, se cioè il tronco dell’encefalo non è lesionato, il soggetto non può essere dichiarato morto, anche se le funzioni corticali sono abolite. Le funzioni corticali sono quelle che mettono l’uomo in comunicazione con gli altri e con l’ambiente, e che gli consentono di pensare e di provare emozioni, di muoversi e di avvertire sensazioni.
I progressi delle tecniche rianimatorie hanno fatto aumentare il numero dei casi di morte corticale, di soggetti cioè che mantengono le funzioni vegetative, ma hanno perduto le funzioni superiori, a causa della necrosi della corteccia cerebrale.
Il concetto che è stato avanzato (e che sto avanzando) è quello della morte corticale, che ha suscitato numerosi ed aspri dibattiti e che nessuno Stato ha affrontato sul piano legislativo. Il mio personale punto di vista è che una persona in istato vegetativo persistente dovrebbe considerarsi già morta, anche se le sue funzioni vegetative persistono.
La (relativa) numerosità di questi casi pone gravi problemi di natura economica, assistenziale ed etica.
Infatti, l’assistenza a queste persone è molto costosa, sia per le famiglie e sia per i Servizi sanitari, e non sono sufficienti le strutture adibite all’assistenza di essa, essendo improponibile il ricovero prolungato in un reparto di Rianimazione. Sul piano etico, il problema si riduce a questo: che fare di questi malati?
Negli Stati nord-europei e dell’America del Nord, da tempo esistono i cosiddetti “testamenti di vita” o “testamenti biologici” o “direttive anticipate” attraverso i quali un soggetto esprime le sue volontà circa le possibili alternative terapeutiche, compreso il rifiuto della terapia, quando lui non sarà più in grado di prendere le decisioni perché privo di coscienza e della capacità di formularle. Tali testamenti biologici potrebbero applicarsi a questa situazione e anche ad altre simili. Su questo tema, vedi il capitolo CCXVI di A. G. Spagnolo e M. L . Di Pietro, “Testamenti di vita” (in Trattato di Medicina legale e Scienze affini, a cura di G. Giusti, vol. VII, pp. 49- 82, CEDAM, Padova 2005).
Come detto, i casi di SVP sono relativamente numerosi, ma per lo più non pongono problemi legali, se non per l’eventuale valutazione del danno. Problemi serissimi sorgono invece quando, per lo più da parte dei familiari, sorga la richiesta di interrompere le cure e l’assistenza. La ragione vera di tale richiesta sta nell’incapacità della famiglia di sopportare ancora una situazione del genere, sia sul piano dei costi economici sia sul piano affettivo. E’ una situazione condivisa in occidente, si ricordino i casi di Terry Schiavo negli Stati Uniti e di Eluana Englaro in Italia.
Questi casi, ma altri ve ne sono, potrebbero rappresentare, secondo alcuni, un “lasciar morire”, il “letting die” , secondo altri una sorta di eutanasia mascherata. Ma né il lasciar morire né l’eutanasia hanno finora ricevuto, nella gran parte dei Paesi, una soluzione legislativa, cosicché il tutto finisce per rimanere nel campo dell’etica e nella mani di un magistrato che non ha una norma su cui basarsi.
Allo stato delle cose, il problema non è risolvibile.
Sono passati venticinque anni e più da quando pubblicai una piccola opera sull’eutanasia (G. Giusti, Eutanasia: diritto di vivere/diritto di morire, CEDAM, 1983), puntando l’attenzione su taluni aspetti medico- giuridici e sociologici, e contrapponendo il diritto di vivere al diritto di morire. Una breve sintesi è pubblicata come capitolo del Trattato di Criminologia del Ferracuti .
In questi anni il dibattito etico, sempre intenso ma prevalentemente legato a posizioni di carattere religioso, è tuttavia sfociato in alcune leggi, che hanno ancor più alimentato questo dibattito. Nel momento in cui scrivo sono leggi dello Stato quella dell’Oregon, quella dell’Olanda e quella del Belgio. In altri Stati leggi analoghe sono in preparazione.
Il punto di vista sociale sull’eutanasia è dunque mutato, e l’eutanasia, se compiuta entro i limiti consentiti dalla legge, non è più reato in quei Paesi. Si sta verificando qualcosa di analogo a quello che è accaduto per l’interruzione volontaria della gravidanza. La progressiva secolarizzazione della vita attuale porta evidentemente con sé anche il germe dell’annullamento della vita stessa, se non vi sono buone ragioni per continuare a viverla. Nelle leggi citate, tuttavia, sono ben forti i principi di un’etica laica che è degna di grande rispetto e attenzione.
I casi di eutanasia che giungono all’attenzione del grande pubblico sono molto pochi, e usualmente sono giudicati dalle Corti d’Assise con grande comprensione, eppur nel rispetto delle leggi del nostro Paese. Vi è ragione di credere, tuttavia, che i casi reali, che non emergono, siano assai più numerosi, in particolare tra i pazienti terminali in età avanzata, ricoverati in ospedali o in istituzioni analoghe. E’ stata avanzata l’ipotesi che tali decessi siano causati dai familiari e/o dai medici di quei pazienti, vuoi per la sottrazione delle cure, vuoi per la somministrazione di farmaci analgesici (usualmente, morfina) in quantità relativamente elevate. In mancanza di adeguate indagini, anche soltanto cliniche, non pare possibile dare una risposta accettabile. Anche perché la sottrazione di cure o la somministrazione di analgesici in eccesso non rispondono necessariamente all’intenzione di uccidere quel malato, ma potrebbero rispondere alla volontà di non farlo soffrire e di non impegnarsi in un inutile accanimento terapeutico. Il discrimine non è facile da valutare.
Con questo, io non intendo giustificare condotte sanitarie eventualmente lesive degli interessi del paziente, ma soltanto far comprendere al Lettore, e sia pure in poche righe, quanto complesse siano le problematiche di natura sociale e bioetica riguardanti l’eutanasia, il lasciar morire, l’accanimento terapeutico.
Sul tema dell’eutanasia, vedi anche G. Giusti, Norme sul suicidio assistito e sull’eutanasia, in Trattato di Medicina legale e Scienze affini, vol. VII, pp. 137- 166, CEDAM, Padova 2005.
Lo stato vegetativo persistente (si dice così quando tale condizione dura più di un mese, permanente quando la durata è indefinita, anche se ora si preferisce semplicemente parlare di stato vegetativo) è in genere la conseguenza di un grave trauma encefalico o di una grave e prolungata anossia cerebrale, da qualunque causa provocata (arresto cardiaco, avvelenamento da monossido di carbonio, ecc.).
Il soggetto in SVP non è cosciente, non esegue movimenti finalizzati, non avverte sensazioni, ma respira autonomamente o con l’aiuto di un respiratore, ha la funzione circolatoria, ha il suo metabolismo, può essere nutrito, urina e defeca.
Attualmente, anche sul piano legislativo, la morte di una persona si identifica con la morte del suo cervello, che si ha quando anche le funzioni vegetative elementari vengono meno. Tuttavia, se queste funzioni persistono, se cioè il tronco dell’encefalo non è lesionato, il soggetto non può essere dichiarato morto, anche se le funzioni corticali sono abolite. Le funzioni corticali sono quelle che mettono l’uomo in comunicazione con gli altri e con l’ambiente, e che gli consentono di pensare e di provare emozioni, di muoversi e di avvertire sensazioni.
I progressi delle tecniche rianimatorie hanno fatto aumentare il numero dei casi di morte corticale, di soggetti cioè che mantengono le funzioni vegetative, ma hanno perduto le funzioni superiori, a causa della necrosi della corteccia cerebrale.
Il concetto che è stato avanzato (e che sto avanzando) è quello della morte corticale, che ha suscitato numerosi ed aspri dibattiti e che nessuno Stato ha affrontato sul piano legislativo. Il mio personale punto di vista è che una persona in istato vegetativo persistente dovrebbe considerarsi già morta, anche se le sue funzioni vegetative persistono.
La (relativa) numerosità di questi casi pone gravi problemi di natura economica, assistenziale ed etica.
Infatti, l’assistenza a queste persone è molto costosa, sia per le famiglie e sia per i Servizi sanitari, e non sono sufficienti le strutture adibite all’assistenza di essa, essendo improponibile il ricovero prolungato in un reparto di Rianimazione. Sul piano etico, il problema si riduce a questo: che fare di questi malati?
Negli Stati nord-europei e dell’America del Nord, da tempo esistono i cosiddetti “testamenti di vita” o “testamenti biologici” o “direttive anticipate” attraverso i quali un soggetto esprime le sue volontà circa le possibili alternative terapeutiche, compreso il rifiuto della terapia, quando lui non sarà più in grado di prendere le decisioni perché privo di coscienza e della capacità di formularle. Tali testamenti biologici potrebbero applicarsi a questa situazione e anche ad altre simili. Su questo tema, vedi il capitolo CCXVI di A. G. Spagnolo e M. L . Di Pietro, “Testamenti di vita” (in Trattato di Medicina legale e Scienze affini, a cura di G. Giusti, vol. VII, pp. 49- 82, CEDAM, Padova 2005).
Come detto, i casi di SVP sono relativamente numerosi, ma per lo più non pongono problemi legali, se non per l’eventuale valutazione del danno. Problemi serissimi sorgono invece quando, per lo più da parte dei familiari, sorga la richiesta di interrompere le cure e l’assistenza. La ragione vera di tale richiesta sta nell’incapacità della famiglia di sopportare ancora una situazione del genere, sia sul piano dei costi economici sia sul piano affettivo. E’ una situazione condivisa in occidente, si ricordino i casi di Terry Schiavo negli Stati Uniti e di Eluana Englaro in Italia.
Questi casi, ma altri ve ne sono, potrebbero rappresentare, secondo alcuni, un “lasciar morire”, il “letting die” , secondo altri una sorta di eutanasia mascherata. Ma né il lasciar morire né l’eutanasia hanno finora ricevuto, nella gran parte dei Paesi, una soluzione legislativa, cosicché il tutto finisce per rimanere nel campo dell’etica e nella mani di un magistrato che non ha una norma su cui basarsi.
Allo stato delle cose, il problema non è risolvibile.
Sono passati venticinque anni e più da quando pubblicai una piccola opera sull’eutanasia (G. Giusti, Eutanasia: diritto di vivere/diritto di morire, CEDAM, 1983), puntando l’attenzione su taluni aspetti medico- giuridici e sociologici, e contrapponendo il diritto di vivere al diritto di morire. Una breve sintesi è pubblicata come capitolo del Trattato di Criminologia del Ferracuti .
In questi anni il dibattito etico, sempre intenso ma prevalentemente legato a posizioni di carattere religioso, è tuttavia sfociato in alcune leggi, che hanno ancor più alimentato questo dibattito. Nel momento in cui scrivo sono leggi dello Stato quella dell’Oregon, quella dell’Olanda e quella del Belgio. In altri Stati leggi analoghe sono in preparazione.
Il punto di vista sociale sull’eutanasia è dunque mutato, e l’eutanasia, se compiuta entro i limiti consentiti dalla legge, non è più reato in quei Paesi. Si sta verificando qualcosa di analogo a quello che è accaduto per l’interruzione volontaria della gravidanza. La progressiva secolarizzazione della vita attuale porta evidentemente con sé anche il germe dell’annullamento della vita stessa, se non vi sono buone ragioni per continuare a viverla. Nelle leggi citate, tuttavia, sono ben forti i principi di un’etica laica che è degna di grande rispetto e attenzione.
I casi di eutanasia che giungono all’attenzione del grande pubblico sono molto pochi, e usualmente sono giudicati dalle Corti d’Assise con grande comprensione, eppur nel rispetto delle leggi del nostro Paese. Vi è ragione di credere, tuttavia, che i casi reali, che non emergono, siano assai più numerosi, in particolare tra i pazienti terminali in età avanzata, ricoverati in ospedali o in istituzioni analoghe. E’ stata avanzata l’ipotesi che tali decessi siano causati dai familiari e/o dai medici di quei pazienti, vuoi per la sottrazione delle cure, vuoi per la somministrazione di farmaci analgesici (usualmente, morfina) in quantità relativamente elevate. In mancanza di adeguate indagini, anche soltanto cliniche, non pare possibile dare una risposta accettabile. Anche perché la sottrazione di cure o la somministrazione di analgesici in eccesso non rispondono necessariamente all’intenzione di uccidere quel malato, ma potrebbero rispondere alla volontà di non farlo soffrire e di non impegnarsi in un inutile accanimento terapeutico. Il discrimine non è facile da valutare.
Con questo, io non intendo giustificare condotte sanitarie eventualmente lesive degli interessi del paziente, ma soltanto far comprendere al Lettore, e sia pure in poche righe, quanto complesse siano le problematiche di natura sociale e bioetica riguardanti l’eutanasia, il lasciar morire, l’accanimento terapeutico.
Sul tema dell’eutanasia, vedi anche G. Giusti, Norme sul suicidio assistito e sull’eutanasia, in Trattato di Medicina legale e Scienze affini, vol. VII, pp. 137- 166, CEDAM, Padova 2005.
infarto al pronto soccorso di cassino
CASSINO (Frosinone) - Una donna di 56 anni è deceduta venerdì sera nell'ospedale Santa Scolastica di Cassino dopo che, secondo il racconto dei familiari, sarebbe rimasta ben otto ore al pronto soccorso con uno stato di affaticamento respiratorio e dolori al petto. Una volta concluso l'iter di accertamenti i medici avrebbero stabilito il suo ricovero nel reparto di ortopedia.
IL PRIMARIO: «NON È VERO» - Il primario del Pronto soccorso, Ettore Urbano, dà una versione diversa. La donna deceduta ha atteso «soltanto due minuti» prima di essere visitata. L'ho visitata e monitorata io personalmente. Non è stata otto ore in attesa, ma in trattamento e in osservazione».
INFARTO IN ASCENSORE - Mentre la signora, residente a Cassino, veniva trasferita ai piani superiori, è stata colta in ascensore da un improvviso infarto ed è morta. In ospedale sono immediatamente arrivati i carabinieri della Compagnia di Cassino che ora dovranno accertare quanto accaduto e se, come dicono i familiari della donna, realmente sia rimasta otto ore al pronto soccorso senza che nessuno si rendesse conto che i dolori e l'affaticamento respiratorio potevano arrivare da un problema cardiaco in corso.
NEONATA DECEDUTA - L'episodio denunciato venerdì 4 febbraio segue di poche settimane un altro evento luttuoso che avrebbe avuto origine nello stesso ospedale di Cassino: la magistratura indaga infatti sulla morte di una neonata, avvenuta lo scorso 19 novembre al Policlinico Umberto I di Roma, dopo che la piccola era nata con cesareo nel nosocomio di Cassino; la bimba aveva subito mostrato una grave insufficienza cardiaca. Secondo i genitori, il cesareo sarebbe stato eseguito in ritardo e ciò avrebbe causato danni e problemi alla neonata che non ce l'ha fatta.
IL PRIMARIO: «NON È VERO» - Il primario del Pronto soccorso, Ettore Urbano, dà una versione diversa. La donna deceduta ha atteso «soltanto due minuti» prima di essere visitata. L'ho visitata e monitorata io personalmente. Non è stata otto ore in attesa, ma in trattamento e in osservazione».
INFARTO IN ASCENSORE - Mentre la signora, residente a Cassino, veniva trasferita ai piani superiori, è stata colta in ascensore da un improvviso infarto ed è morta. In ospedale sono immediatamente arrivati i carabinieri della Compagnia di Cassino che ora dovranno accertare quanto accaduto e se, come dicono i familiari della donna, realmente sia rimasta otto ore al pronto soccorso senza che nessuno si rendesse conto che i dolori e l'affaticamento respiratorio potevano arrivare da un problema cardiaco in corso.
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ANCORA STUPEFACENTI
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RISERBO DEGLI INQUIRENTI - Uno dei tre arrestati - ma su questo non ci sono ancora conferme ufficiali - sarebbe di nazionalità tunisina. Sull'operazione gli inquirenti mantengono il riserbo assoluto.
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05 febbraio 2011
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