lunedì 28 febbraio 2011

meditazioni

ULTIMO CAPITOLO

di Giusto Giusti

Indice sommario. 1. Introduzione. 2. Regole delle perizie. 3. Lesioni personali. 4. Valutazione del danno. 5. Compatibilità carceraria. 6. Stupefacenti. 7. Pericolosità sociale. 8. Infortunio iatrogeno. 9. Diritti umani. 10. L’ambiente. 11. Gli incidenti stradali. 12. Gli infortuni sul lavoro. 13. La questione delle pene. 14. L’eutanasia. 15. Lo spirito delle leggi. 16. I nuovo schiavi. 17. Saluti.

E così, caro Lettore, siamo arrivati all’ultimo capitolo, nel quale si possono tirare le somme di un trattato, o anche di una vita professionale. Non intendo certo abbandonarmi a ricordi, rimpianti, rimorsi, pentimenti nelle scelte fondamentali della vita. Ognuno di noi fa, ed ha fatto, quello che ha potuto, secondo le proprie qualità e la propria fortuna, e secondo quello che altri gli hanno lasciato fare. Ognuno di noi ha dato il proprio contributo di lavoro e di pensiero a questa disciplina così singolare.
Nel tempo, in parte trascorso insieme, si sono verificati mutamenti importanti in Medicina legale. Nel bene e nel male, ognuno di noi ha contribuito a cambiare lo scenario in cui operiamo.
I più anziani fra noi (ormai posso dire quelli della mia età) sanno bene come era la situazione medico legale negli anni ’60. Ci sono stati importanti progressi, e per prima ricordo la grande scoperta di Jeffries, che ha consentito l’attribuzione certa della paternità e delle tracce biologiche, mentre progressi rilevanti vi sono stati in tossicologia forense, e più lenti in altri settori . E’ tuttavia il quadro generale che va cambiando, la medicina legale si sta frantumando in settori sempre più piccoli e più specializzati sul piano tecnico, mentre non si intravvede la soluzione dei grandi problemi né la giusta collocazione organizzativa di questa scienza nell’ambito delle altre scienze bio- mediche. Il fatto è, probabilmente, che la nostra disciplina rappresenta più una funzione che una morfologia, cosicché vi è la tendenza alla dispersione più che alla compattazione. In parte questo si verifica anche in altre discipline, ma è specialmente evidente da noi. Certamente nessuno può padroneggiare settori scientifici così diversi: patologia forense, medicina legale del vivente, psichiatria e psicologia, genetica, tossicologia, balistica, entomologia, e quant’altro. Certamente uno psichiatra può fare una perizia psichiatrica meglio dello psichiatra forense, e un genetista una perizia genetica meglio di un genetista forense. Arrivo a dire che un anatomo patologo eseguirà un’autopsia meglio di un medico legale, e così al medico legale resterà ben poco, quello che nessun altro vuole, cioè il cadavere esumato. L’ho già scritto tanto tempo fa, così tanto che non ricordo dove.
Eppure nessun’altra disciplina come questa ti offre occasioni di arricchimento culturale, di conoscenze molteplici e diversissime, di contesti che assai difficilmente le altre specialità mediche ti consentono di apprezzare. Ma tutto questo ti costa una grande fatica, ed il rischio è di trasformarti in un tuttologo.
Naturalmente il contesto sociale è profondamente cambiato, si sono affacciate nuove esigenze, la popolazione italiana si è secolarizzata e molti dei valori cristiani non sono più percepiti come valori cogenti. Di contro, la gente è assai più consapevole dei propri diritti, anche se- per quanto appare- tali diritti sono fatti valere più come diritti individuali che come diritti sociali, mentre la nozione del dovere appare assai sfumata sullo sfondo. Si nota (recte: io noto) l’accentuazione di alcune caratteristiche nazionali, come per esempio la remissività di fronte al potente di turno, e la scarsa propensione ai delitti contro la persona. L’arte dell’imbroglio pare elevata a sistema, mentre i delitti contro la persona diventano prerogativa (proporzionalmente, s’intende) degli immigrati. L’innalzamento della durata della vita pone anche importanti problemi di ordine previdenziale, che non possono non riflettersi anche sui pareri concernenti l’invalidità pensionabile e l’invalidità civile.
La scarsa numerosità degli omicidi che richiedono accertamenti di natura criminalistica ha fatto sì che questo settore appaia poco sviluppato rispetto allo sviluppo che esso ha avuto in altri Paesi, segnatamente gli Stati Uniti, dove i delitti di violenza sono assai più numerosi, sia in numero assoluto sia in proporzione al numero degli abitanti. In una visione prospettica, pare necessario dar ragione a quei colleghi che ritenevano che la medicina legale più utile fosse quella dedicata agli aspetti pensionistici e risarcitori. Ma è proprio in questi settori che la confusione dottrinaria e organizzativa regna sovrana.
Infine, il punto più dolente, e cioè la scelta del perito idoneo. Ancora più dolente, tuttavia, se solo consideriamo che non dovrebbe essere necessario per il Giudice scegliere un Perito, posto che nessuno- fortunatamente- sceglie il Giudice, e che spesso, molto spesso, il parere del Perito diventa il parere del Giudice. Da anni sto avvicinandomi all’idea che non le persone, ma le strutture debbono servire la Giustizia, strutture che abbiamo e che dovremmo utilizzare al meglio.
Di questo e di altri problemi intendo intrattenermi con voi in questo capitolo, avvertendovi prima che si tratterà, in larga misura, di mie opinioni personali, talora condivise da qualcuno e talora seriamente osteggiate da molti, o dalla maggioranza dei colleghi. Intendo anche fare qualche invasione di campo, visto che il nostro codice penale è stato promulgato nel 1930, e dunque è stato scritto negli anni ’20, e risente dunque quanto meno delle idee degli anni ’10, cioè delle idee di un secolo fa. Lombroso era ancora vivo e proiettava la sua lunghissima ombra sul codice Rocco.

REGOLE DELLE PERIZIE
Ciascuno di noi, sia medico legale sia giurista, conosce le regole delle perizie e delle consulenze tecniche d’ufficio e di parte. Non starò a ripeterle. Quando cominciai, molto giovane e un po’ titubante, ad affacciarmi su questa professione, fui sorpreso dal fatto che non si trattava, nel concreto, di una attività pubblica, bensì di una attività privata per la quale si percepiva un compenso. Rimasi sorpreso, come ho detto, ma mi fu spiegato che il mio modo di pensare era sbagliato, ma io continuo a pensare che si tratti invece di una attività di tipo privato, individuale, dato che è il singolo individuo che effettua una perizia, non una istituzione, e che, a stretto rigore, un pubblico dipendente, per esempio un professore di medicina legale, non potrebbe neppure trovare il tempo e soprattutto il modo di fare una perizia. E infatti, l’autopsia dove la fai? Forse nel salotto di casa? No, la fai in una pubblica struttura, nel tempo che altri ti pagano. E te lo pagano due volte. Questo non va bene. Però le autopsie vanno fatte. D’altra parte, se un medico legale non fa le perizie, cos’altro dovrebbe fare? Questi sono punti importanti, che ti obbligano a prendere in considerazione ipotesi che altri Paesi hanno già affrontato e risolto.
A mio avviso, non è la persona che deve essere competente, ma è la struttura, e deve trattarsi di una struttura pubblica, perché non c’è nulla che sia più pubblico della Medicina legale. Noi siamo riusciti- ricordo che lo diceva il prof. Franchini molti anni fa- a rendere pubblica la medicina che sarebbe dovuta rimanere privata e a rendere privata la medicina che doveva rimanere pubblica, e cioè la medicina legale. E con questo non voglio dire che il Servizio sanitario nazionale dovrebbe ritrasformarsi nella vecchia mutua. Dico soltanto che un organo dello Stato deve lavorare per essere utile ad altro organo dello Stato, che non è lecito affidare responsabilità talora grandissime ad una singola persona, che non può avere perfetta cognizione di tutti gli aspetti di un caso criminale, o anche soltanto civile. Io immagino strutture di tipo dipartimentale, gestite dalle ASL, dotate di personale e di mezzi, che lavorino solo per la Procura e per il Tribunale, penale o civile, con esclusione delle consulenze di parte, che devono rimanere ai medici privati. Questa attività rientrerebbe, a mio parere, tra i compiti previsti dal servizio medico- legale delle ASL.
Qualcuno potrebbe anche pensare che organi deputati a compiti medico- legali potrebbero essere gli odierni Istituti [recte: sezioni di un dipartimento più ampio] di Medicina legale, i quali però talora sovrabbondano di persone poco preparate e soffrono di una cronica mancanza di denaro, per aggiornare lo strumentario, la biblioteca, ecc. A questo proposito, ci si potrebbe anche domandare se gli istituti universitari siano davvero utili alla disciplina, o se non sarebbe meglio abolirli tout court. Si dirà: e la funzione didattica? Vero, ma ormai ci si deve anche domandare quale funzione didattica venga esercitata dai membri di una sezione dipartimentale di medicina legale. A dire il vero, gli insegnamenti sono moltissimi, per esempio, in numerosi corsi di laurea (medicina e chirurgia, odontostomatologia, scienze motorie) e nella maggior parte delle lauree brevi (scienze infermieristiche, ostetricia, ecc., perfino i podologi hanno un insegnamento medico legale), in gran parte delle scuole di specializzazione, ecc. Ma quel che viene insegnato non è la medicina legale, bensì la giurisprudenza medica. Questo è un dato di fatto. Questi insegnamenti andrebbero meglio affidati ad un giurista, mentre l’aspetto tecnico è talmente specialistico, che solo ad un ristrettissimo numero di studenti in medicina può interessare. La conseguenza logica è che potremmo tranquillamente rinunciare all’insegnamento della medicina legale a livello universitario, seguendo con questo l’esempio di molti Paesi, e riservarlo, a livello post- universitario, a quei pochi che vogliono fare questo mestiere, e solo questo.

LESIONI PERSONALI
I più anziani tra noi ricorderanno sicuramente i loro inizi nelle preture penali, quando, citato dal Pretore, ti recavi in aula e dovevi visitare- si fa per dire- qualche decina di vittime di lesioni personali colpose, per lo più da incidenti stradali. Dovevi dare la risposta subito, a verbale, e il Pretore, per compensarti, ti concedeva di riservarti la risposta per alcuni casi, meritevoli di approfondimento, e di più numerose vacazioni. La massima parte dei casi però dovevi valutarla lì, in aula, e se dovevi visitare (spogliare) qualcuno, per esempio per un esito di frattura di gamba, lo facevi in cancelleria o in qualche stanzetta disabitata della Pretura. Il tempo concesso per leggere le carte e visitare il periziando era di qualche minuto, e tu eri incalzato dal cancelliere che voleva verbalizzare il tutto. Qualche volta le situazioni erano grottesche.
Ripensandoci ora, la metodologia in sé non era sbagliata, quel che mancava erano il tempo ed il luogo, cioè un ambiente decente, anche minimamente attrezzato. In fondo, molti Colleghi, che lavorano a ritmo serrato per Compagnie d’assicurazione, sanno bene come una adeguata organizzazione possa consentire di sveltire il lavoro medico.
Ora, i tempi richiesti per una valutazione di una lesione personale sono molto più lunghi, a causa delle necessarie formalità della CT o della perizia. Invece di qualche minuto, passano due- tre mesi prima che il PM o il Giudice possano avere il frutto della tua indagine, e poi altro tempo sarà necessario ai colleghi CTP per depositare le loro critiche al tuo operato. Anche questi aspetti rallentano la trattazione del caso.
Non era tuttavia questo di cui volevo parlare, bensì della classificazione delle lesioni personali e delle aggravanti. La CEDAM ha pubblicato una bella serie di ristampe anastatiche dei Codici degli Stati italiani pre- unitari, e, se dedichiamo un po’ di tempo all’esame degli articoli sulle lesioni personali, possiamo verificare che assai poco è cambiato, sia nello spazio sia nel tempo. Per esempio, il fatidico termine dei 40 giorni è una sorta di mito da circa 200 anni, trasmesso da infermiere di Pronto Soccorso ad un altro, e dagli infermieri ai medici, come soglia da non superare mai, perché altrimenti c’erano l’obbligo del referto e poi il processo penale. Si giungeva al ridicolo e al falso di dichiarare guaribili entro 40 giorni orribili fratture di gamba o di femore, che avrebbero richiesto almeno il doppio o il triplo del tempo per guarire (con postumi). A lungo la Corte di legittimità ha discettato, e perso tempo, per definire cosa fossero veramente un “indebolimento permanente” o lo sfregio, e la differenza tra questo e la deformazione del viso.
So bene che i Giuristi sono molto affezionati a questa classificazione, e che non vogliono abbandonarla. Ma voglio ricordare che la Medicina legale ha elaborato validissime tabelle del danno biologico che potrebbero applicarsi in sede penale, consentendo una più adeguata valutazione dei postumi (e della pena) e di non dover ripetere la consulenza tecnica in sede civile. Del resto, non ha molto senso equiparare, come attualmente accade, la perdita del senso della vista (danno gravissimo, valutabile in sede civile con il 100%- adesso un poco meno) con la perdita dell’olfatto, che, pur essendo anch’esso la perdita di un senso secondo l’art. 583 del codice penale, in realtà in sede civile è valutato con il 5%.
Soprattutto, le disposizioni sulle lesioni personali non tengono conto dei progressi della medicina e dell’organizzazione sanitaria. Gli antibiotici e la rapidità del soccorso medico hanno di fatto reso meno gravi le lesioni personali secondo detta classificazione, e ciò ha avuto come conseguenza la riduzione delle pene. Quanto a questo, niente di male, ne parlerò in seguito.

VALUTAZIONE DEL DANNO
Ho impiegato anni per orientarmi nei vari contesti amministrativi e giudiziari, e per capire con quali criteri e tabelle si deve procedere alla valutazione del danno. Qualcuno penserà, eventualmente dirà, che gli anni non mi sono bastati, e che non ho ancora capito le sottigliezze e le fondamentali differenze che intercorrono fra una valutazione RC e una valutazione INAIL e una valutazione di invalidità civile, e quella per i dipendenti civili e militari dello Stato, ecc. Continuo a pensare come pensavo quand’ero studente, che cioè una menomazione debba essere valutata in un unico modo, e non capisco perché la perdita di un dito valga x% in un contesto e y% in un altro, e rappresenti un indebolimento permanente della mano in sede penale. Possiamo discutere fino alla nausea sui presupposti teorici del danno a persona, ma non ha senso proporre sette (mi pare proprio che siano sette) differenti tabelle che impongono per legge quella valutazione, o la suggeriscono, visto che in questo sovrano disordine non abbiamo le tabelle per le macropermanenti in RC, ma solo le tabelle per le micro permanenti (fino al 9%) e solo per i danni da incidenti automobilistici.
Per consolarmi, ho preso in mano la Guida alla valutazione dell’invalidità permanente, dell’ Associazione Medica Americana (curata da Linda Cocchiarella e Gunnar Andersson, 2002; edizione italiana CSC, Torino 2004, curata da S. Jourdan- vedi il capitolo corrispondente in questo volume), nella quale il criterio medico valutativo è uno solo, e la percentuale del danno fa riferimento agli atti della vita quotidiana, con esclusione delle attività lavorative. Il pragmatismo degli Americani ci deve insegnare qualcosa. Non occorrerebbe fare nulla, solo copiare. E’ con questa Guida che negli Stati Uniti si valuta il danno a persona, e magari i medici legali litigano per altre cose, ma non per la percentuale di danno. Tutti noi conosciamo le questioni giudiziarie sorte per scambi di favori tra medici legali che lavorano sia privatamente sia per le Compagnie di assicurazioni: questi processi non sarebbero neppure nati se fosse stata usata questa Guida, che ti dà indicazioni assolutamente precise, a prova di ripetibilità, nel senso che qualunque consulente, visitando quella persona, non può non giungere alla stessa valutazione.
Tuttavia, senza pensare ad ipotesi di reato, è indubbio che le nostre tabelle, quali esse siano, non danno indicazioni cliniche sufficienti per evitare i contrasti fra le parti, tali che prolungano talvolta, o spesso, i processi civili o la procedura amministrativa, o sono causa dei processi, poiché vi sono sempre condizioni, o scuse, che permettono di aumentare, o diminuire, la valutazione del danno. In questo senso, l’impiego di un’unica tabella condivisa (stai attento, la Guida dell’ AMA è un grosso volume) darebbe un significativo contributo ad una migliore trattazione di queste problematiche. Naturalmente, bisognerebbe abolire tutte le altre tabelle, e questo è forse un problema irrisolvibile.

COMPATIBILITA’ CARCERARIA
Per saperne di più sull’argomento, vai al capitolo apposito, in questo volume. Il capitolo è stato scritto da due avvocati, che si occupano esclusivamente del “carcerario”. Essi cercano di trarre di galera detenuti definitivi e detenuti in attesa di giudizio adducendo ragioni varie, tra le quali vi possono essere anche i motivi di salute.
Negli ultimi decenni, l’incompatibilità carceraria per motivi di salute ha assunto una grande importanza soprattutto per rendere meno difficile l’attesa del giudizio, che spesso si prolunga per anni. Essa è cioè un effetto secondario delle lungaggini intollerabili dell’indagine e del processo penale. Queste lungaggini ci sono state varie volte e acerbamente rimproverate dal Consiglio d’Europa. Se il processo avesse una durata ragionevole, il problema dell’incompatibilità carceraria sarebbe molto meno presente.
Ho scritto molto su questo argomento, e ho esaminato molti casi, e ho assistito Colleghi sotto processo per avere, alternativamente, “messo fuori” o “lasciato dentro” dei detenuti. Ne ho tratto la convinzione che la pratica medica in carcere è difficile, e seriamente limitata da un lato dall’atteggiamento dei reclusi e dall’altro dalla burocrazia. L’atteggiamento dei detenuti è in genere improntato a sfiducia nei confronti del servizio sanitario offerto dal carcere; tale sfiducia finisce per giungere a veri e propri atti di simulazione cosciente e di frode. Di contro, l’Amministrazione, consapevole di questi dati di fatto, tende al rigore, e quindi si espone a rischi, quando il detenuto sia davvero malato, o muoia in carcere, o pratichi l’autolesionismo fino al suicidio. In questo contesto si inserisce la Magistratura, che gestisce il detenuto finché sia in corso il processo, e anche dopo, ad opera del Tribunale di Sorveglianza.
Le regole sulla compatibilità non son affatto chiare, poiché si afferma che, se le condizioni di salute sono tanto gravi da non consentire le cure necessarie nello stato di detenzione, allora il detenuto può (deve) avere il beneficio degli arresti domiciliari, o della detenzione domiciliare. Se il giudice approva, naturalmente, dato che la gravità del reato, o dell’ipotesi di reato, è un elemento molto importante della decisione. Non è il medico legale che decide, è il giudice. Il povero giudice si deve arrabattare anche lui, sulla scorta di imprecise norme e di variabili sentenze della Corte di Cassazione, ed è anche lui esposto a critiche e pericoli.
Vero è che la sanità carceraria non è il massimo che un paziente si possa augurare, e che spesso i mezzi a disposizione sono insufficienti, ma francamente in questo modo è difficile andare avanti, nonostante gli sforzi che i colleghi possono fare. Pensate che il tasso di suicidi in carcere è circa 10 volte quello della popolazione generale, che circa un terzo della popolazione carceraria è composta di stranieri, e che vi è una larga fetta di tossicodipendenti. Bastano questi pochi elementi per indicare le necessità delle carceri. Se poi, come pare certo, gli ospedali psichiatrici giudiziari (o solo alcuni) verranno aboliti, allora le carceri dovranno accogliere anche questi malati di mente dichiarati, come se già nelle carceri non ce ne fossero abbastanza.
Non vedo possibili soluzioni, se non quella di adibire un ospedale ad esclusivo uso dell’Amministrazione penitenziaria, in una località adatta, facilmente raggiungibile da tutti i punti della penisola. Avevo tentato, in passato, di ottenere questo, ma l’ipotesi non è evidentemente sembrata valida al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. E’ possibile che il DAP abbia ragione, o che il costo, anche di gestione, sia eccessivo, ma continuo a pensare che questa soluzione sia fattibile e utile.

STUPEFACENTI
Si legge ogni tanto sulla stampa quotidiana di progetti, di diversa origine ministeriale, di modifica alla vigente legge sugli stupefacenti, forse considerata troppo afflittiva per i drogati, o “tossici” che siano.
Negli anni, siamo passati della legge 1041 del 1954, alla 685/1975, al DPR 309/1990, attualmente vigente e modificato, anche attraverso un referendum. Posso solo dire che nessuna di queste leggi o decreti è stata veramente efficace nel reprimere l’abuso di stupefacenti. Credo che la ragione di ciò stia nel fatto che ci vuol ben altro che un tratto di penna per sconfiggere una forma di condotta che, in vari modi, appare profondamente radicata nell’uomo. Le varie popolazioni hanno creato, nel loro territorio, la droga preferita, per esempio i Cinesi e altre popolazioni dell’Estremo Oriente avevano e hanno l’oppio, fra gli Arabi si è diffusa la canapa, gli Indios del Sud America hanno la coca, e noi Occidentali abbiamo l’alcool. Non è privo di significato il fatto che queste, o i loro derivati, siano le droghe più diffuse, anche se più recentemente hanno fatto la loro comparsa le droghe sintetiche.
Come spesso ci accade, noi abbiamo la tendenza a legiferare in maniera schizofrenica, passando da una severità ingiustificata ad un lasso permissivismo, dimenticando che nessuno di questi atteggiamenti è stato davvero utile nella lotta all’abuso di droga, perché l’universo dei consumatori è molto variegato a livello individuale e sociale e perché le diverse droghe hanno differenti gradi di pericolosità. Per esempio, il fumo di canapa non ha mai ucciso nessuno, mentre il numero dei morti da eroina, pur diminuito negli ultimi anni, è ancora significativo. Allora, secondo una logica medica, si potrebbe tollerare l’uso della canapa e combattere in tutti i modi l’uso dell’eroina, differenziando, come pare ragionevole, queste sostanze sotto il profilo punitivo. Ciò servirebbe anche a concentrare gli sforzi contro l’eroina, senza giungere ad eccessi, come in Iran, dove il commercio di oppio o di eroina comporta la pena di morte, ma neanche questo riesce a bloccarlo.
Qualunque sia la modifica al DPR 309/1990, sono pessimista sulla sua efficacia. L’unico strumento davvero efficace, dimostratosi tale nel tempo, è stato quello applicato dal Presidente Mao, dopo la conquista del potere. Quei provvedimenti (costruzioni di ponti e strade, lavori forzati, campi di rieducazione) sono stati costosissimi in termini di vite umane, e non sarebbero accettati qui e ora, mentre le forme terapeutiche impiegate in Occidente e in Italia producono risultati molto modesti. Pare possibile che il fenomeno dell’abuso di droghe si riduca per ragioni che ancora non possono essere immaginate: in fondo, in Italia nel XIX secolo e fino ai primi anni ’60 del XX secolo la tossicodipendenza era un fenomeno sporadico, prevalendo peraltro l’alcolismo. Del resto, non si conoscono ancora le vere ragioni dell’abuso di droghe, nonostante le pretese spiegazioni che giungono da molte parti.

LA PERICOLOSITA’ SOCIALE
La pericolosità sociale è un retaggio delle tesi di Lombroso. Non intendo dire che Lombroso avesse torto, a cercar di prevenire possibili reati, ma, secondo me, la nozione stessa di pericolosità sociale entra in conflitto con tesi molto accettate, secondo le quali non si può punire qualcuno nel timore che compia un reato, ma solo quando l’ha compiuto. La pericolosità sociale corrisponde infatti alla probabilità che un soggetto, prosciolto da un reato per infermità di mente o dichiarato semi-infermo, compia un altro reato.
Ricordo bene almeno un paio di casi, in cui la mia prognosi di mancanza di pericolosità sociale entrò in conflitto con l’opinione diffusa, e ne fui rimproverato, attraverso il giudice e la stampa. Ma, almeno per quelle volte, avevo ragione io, nel ritenere che una madre omicida, gravemente depressa, non avrebbe più commesso alcun reato, se trattata adeguatamente, e che un giovanotto, accusato di aggressione a scopo sessuale, non doveva andare in carcere o in OPG, essendo già passato l’episodio psicotico breve. Mi è andata bene, ma c’erano buoni motivi per essere ottimisti.
Tuttavia la prognosi di pericolosità sociale non è prognosi di malattia, bensì di condotta, e quindi ancor più difficile da formulare, e soggetta ad inevitabili e frequenti errori. Vi sono alcune condizioni che obbligano in pratica ad emettere la prognosi di pericolosità sociale, per esempio la schizofrenia paranoide in fase florida, anche se il paziente viene trattato, o la depressione grave non curata; anche il disturbo antisociale di personalità è una condizione che implica- per definizione- la pericolosità del soggetto, ma che non incide in genere sulla capacità di intendere e di volere, e dunque questi soggetti, in quanto del tutto imputabili, ma molto pericolosi, non potrebbero essere dichiarati tali. E’ una contraddizione che deve essere superata.


L’INFORTUNIO IATROGENO
Il numero delle richieste di risarcimento e delle cause penali e civili per danni causati da errori medici è progressivamente crescente, ed è praticamente impossibile identificare tali errori e dunque contarli, e dunque valutare, anche con ragionevole approssimazione, quale ne sia l’importo economico.
Non mi risulta che in Italia sia stata portata a termine una ricerca che abbia come scopo quello di contare, dopo averli identificati, gli errori medici che abbiano comportato un danno per il paziente, anche se è apprezzabile l’inchiesta che sta conducendo il prof. Luigi Palmieri, la quale tuttavia non può non essere limitata nelle sue finalità. In realtà la raccolta dei dati è impossibile come sa bene chiunque di noi abbia esaminato una cartella clinica in un caso in cui sia palese l’errore medico, che tuttavia non si manifesta nella cartella. E’ comunque ovvio che la cartella clinica sarebbe utilizzabile soltanto per i danni recati a pazienti ospedalizzati.
In altre parole, una ricerca come quella contenuta nel rapporto QUic al Presidente Clinton non sarebbe proponibile in Italia.
L’aumento dei risarcimenti per danni da errore medico porta con sé l’aumento dei premi per le polizze di assicurazione per la responsabilità civile, ed anche la possibilità che il medico, dopo un paio di risarcimenti pagati dalla compagnia d’assicurazione, non sia più assicurabile. E’ palese che, a questo punto, questo medico deve cambiare letteralmente mestiere.
Il cambiamento di attività di alcuni specialisti particolarmente esposti (ostetrici, chirurghi, anestesisti) e la rinuncia alla professione sono già dati di fatto negli Stati Uniti e in Australia, ed anche in altri Paesi, dove peraltro sono più evidenti i prodromi di quello che accadrà con la rinuncia dei giovani medici a specializzarsi in attività professionali a rischio.
Entrando nel dettaglio, in merito cioè alla possibilità di riconoscere un errore medico, se esamino e ricordo la mia casistica- ormai circa il 90% della mia casistica giudiziaria è rappresentata da processi contro medici- vedo che una risposta netta e precisa, in un senso o nell’altro, è un evento raro, e il più delle volte la risposta è di tipo probabilistico, basata sull’inaspettato evento di danno. Riconoscere il danno infatti è relativamente facile, può essere facile correlarlo con la condotta del medico, ma è difficile affermare che la condotta del medico è stata colposamente erronea per il solo fatto che si è verificato un evento dannoso. In altri termini, accade spesso che l’evento di danno assuma le caratteristiche di un infortunio, e cioè di un evento accidentale verificatosi per causa iatrogena, legato all’interazione tra l’opera del medico e la risposta del paziente.
Affermazioni di questo tipo non sono utili alla soluzione del problema, e cioè della corresponsione del risarcimento al paziente danneggiato. In effetti, la possibilità di risarcire il danno passa necessariamente attraverso la dimostrazione della colpa medica e del nesso causale tra questa ed il danno subito, altrimenti il paziente non verrà risarcito. Di contro, sappiamo molto bene che in numerose circostanze, per esempio nel caso di danno dovuto a reazioni anomale a farmaci, non imputabili al medico, il paziente, pur danneggiato, non sarà risarcito, e in sede penale il medico non sarà punito. Questi sono i principi su cui si basano i codici penali e civili degli Stati moderni, Sono principi che, almeno in questo settore di cui ci stiamo occupando, non rispondono più alla esigenza di una giustizia sostanziale di riparazione del danno, e di punizione di un colpevole, se c’è un colpevole.
Per molti aspetti questa situazione sembra somigliare alla situazione creatasi nel campo della lesività da lavoro, che ha portato poi alla creazione del sistema infortunistico, ed assomiglia anche alla situazione che si è creata nel campo degli incidenti stradali, dove la identificazione del colpevole di un incidente è assai spesso problematica, e dove i concorsi di colpa sono numerosi.
Situazioni simili alle nostre sono presenti anche il altri Paesi, ed in alcuni di questi si sta cercando di valutare se il sistema della no-fault compensation sia più efficiente del sistema attuale.
Le proposte di ridurre i rischi per il paziente, di prevenire gli errori medici, di contare sulla lealtà dei medici circa gli errori e le loro conseguenze entrano in collisione con il sistema vigente, cosicché da più parti (cfr. David M. Studdert, Troyen A. Brennan No-Fault Compensation for Medical Injuries JAMA. 2001;286:217-223) è stata avanzata l’idea di una alternativa per compensare il danno, la quale non preveda la prova della colpa medica, superando le obbiezioni più spesso addotte, e cioè l’aumento dei costi e la crescente tendenza all’irresponsabilità da parte del medico, e attribuendo l’obbligo dell’eventuale risarcimento non più al singolo medico bensì alla istituzione.
Il sistema della “no-fault compensation” è operante in Svezia, Danimarca, Finlandia, Nuova Zelanda. L’idea è stata applicata sperimentalmente in Florida e in Virginia per i danni cerebrali dei neonati, e criticata per i criteri troppo restrittivi, e si sta facendo strada anche nel Regno Unito, dove tuttavia si riconosce che il problema non è quello di verificare il danno o l’errore, quanto quello di provare il nesso causale (Clare Dyer, Society Guardian, January 25, 2002). Secondo una autorevole corrente d’opinione giuridica, nel Regno Unito il sistema di perseguire il Servizio Sanitario Nazionale nei Tribunali dovrebbe essere abolito, e sostituito con uno schema risarcitorio di tipo amministrativo e non giudiziario.
Vista perciò la difficoltà di provare la colpa medica, vista l’impossibilità di risarcire un danneggiato senza passare attraverso la dimostrazione della colpa medica, vista la difficoltà che ha il medico a difendersi, possiamo considerare il danno iatrogeno nella sua essenza, che è rappresentato da un danno per il paziente e da una azione od omissione medica che l’ha prodotto, indipendentemente da errori o colpe dei sanitari, medici o infermieri che siano, e cioè fortuitamente.
A questa stregua, il danno iatrogeno non differisce da un infortunio, che come tale va indennizzato, in presenza di una polizza d’assicurazione contro gli infortuni che sia stata sottoscritta.
L’infortunio, in quanto tale, non prevede di per sé la responsabilità penale né la responsabilità civile, né il risarcimento, bensì l’indennizzo da effettuarsi in tempi brevi ed in via amministrativa, in base al contratto stipulato fra le parti.
Nel nostro ordinamento vi sono già ipotesi di indennizzo senza colpa di alcuno, e certamente l’ INAIL rappresenta il caso più immediatamente evidente. Ricordo che l’ INAIL gestisce anche gli indennizzi per i danni da terremoto, e che la legge 210/1992 prevede un indennizzo per danni da vaccinazione e da trasfusione, dopo che numerosi processi sono stati celebrati, la maggior parte senza esito o con esiti comunque discutibili, in merito a danni da vaccinazione e da trasfusione, che vi è un istituto giuridico chiamato “causalità di servizio” che ha assunto dimensioni tali da far allontanare ogni ipotesi di individuare un responsabile che non sia appunto il “servizio”. Non vi è dunque nulla nel nostro ordinamento che impedisca di affidare ad una istituzione la gestione dell’indennizzo per i pazienti danneggiati da un atto medico.
Vi sono anche similitudini con i viaggi aerei, per i quali il prezzo del biglietto offre anche una assicurazione infortuni, o con le gite scolastiche, per le quali le compagnie assicuratrici offrono una polizza infortuni per la durata della gita stessa, o per i viaggi all’estero, e altro. Se consideriamo il ricovero ospedaliero a questa stregua, possiamo anche accettare che ogni paziente che si ricovera e l’Azienda ospedaliera per quello specifico ricovero paghino ad una compagnia assicuratrice o ad una istituzione una somma di denaro per tutti gli eventi infortunistici, compresi quelli di origine iatrogena, che possono verificarsi in danno di quel paziente nel corso del ricovero.
Definire un infortunio iatrogeno è complesso solo in apparenza. Esso potrebbe definirsi come un evento fortuito, dannoso per il paziente, e che sia in relazione di causalità materiale con i trattamenti diagnostici e terapeutici cui il paziente à stato sottoposto. La colpa medica non dovrebbe essere posta in discussione. La valutazione del danno dovrebbe avere alla sua base l’obiettività clinica all’ingresso e l’obiettività clinica all’uscita, ovvero il verbale d’autopsia. Il danno potrebbe valutarsi usando tabelle che abbiano, o a cui si attribuisca, tale funzione. L’indennizzo dovrebbe essere proporzionale al danno, applicandosi peraltro una franchigia per i danni minori o minimi.
Quanto agli aspetti operativi, e ai rapporti con l’Autorità Giudiziaria, si tratta di questioni che possono essere affrontate solo a livello legislativo, semmai il Parlamento ritenesse opportuno di occuparsene.

I DIRITTI UMANI
Vai al capitolo di M. Scalabrelli, in questo volume. Anche in un vasto trattato di medicina legale, è raro trovare un capitolo dedicato ai diritti umani. Da quel che appare, sembra che siano i medici legali stessi a voler confinare la loro disciplina ai soli aspetti tecnici (medici e giuridici che siano), senza voler o poter fare quel passo che li può portare ad avere voce in capitolo in molte questioni. Pensateci un momento, cari Colleghi medici legali: noi siamo subordinati in tutto. Nella medicina clinica siamo subordinati ai clinici, e prendiamo i loro pareri come oro colato; nelle aule di giustizia siamo subordinati a giudici e avvocati, e tutti questi si ritengono in diritto di tagliarci la parola in bocca, quando sembra loro che travalichiamo dai limiti delle nostre competenze. Pensa un momento ai tuoi anni di studio (laurea + specializzazione/i), e ti passeranno i complessi di inferiorità, almeno nei confronti di giuristi che hanno dedicato allo studio la metà o un terzo degli anni che hai dedicato tu. Pensa al clinico, che magari è molto colto e preparato nella sua disciplina, ma non ha un’apertura mentale lontanamente paragonabile a quella che hai tu.
E allora? Perché accettare di rispondere alle domande in un’aula di giustizia solo con un sì o con un no, senza poter spiegare, perché non poter dire esplicitamente che operare un paziente senza il suo consenso è una violazione grave, o che tenere un cittadino in carcere per molto tempo senza un processo è una soperchieria meritevole di sanzione? Non lo dico io, lo dice l’Unione Europea.
Ti sei mai domandato se quello che accade a chi sia stato sottoposto a un’indagine e poi rinviato a giudizio non possa un giorno accadere anche a Te? Solo se ti è già accaduto capisci davvero quello che intendo dire. Guarda le statistiche carcerarie, e domandati perché un gran numero di detenuti siano cittadini stranieri extra- comunitari (ma non Svizzeri o Statunitensi, che come forse sai sono extra-comunitari anche loro) o presunti autori di reati legati alla droga (spesso al solo consumo di droga).
Domandati perché molti cittadini siano indagati, o processati, o carcerati in base ad una diceria, a una lettera anonima, a una intercettazione telefonica, alle dichiarazioni di un “pentito”.
Mi dirai: con tutte le orribili cose che accadono nel mondo, ti vai a preoccupare di queste minuzie. Ti risponderò: occuparsi di queste minuzie aiuta ad ostacolare che orribili cose accadano nel mondo. Se ci pensi un momento, le cose più orribili consistono nelle violazioni dei diritti umani, che si possono riassumere in tre parole, quelle della Rivoluzione francese.
So bene che non è facile, quasi sempre impossibile, occuparsi della fame nel mondo, o di genocidi in qualche remoto paese africano, o dei sequestri di persona, o delle guerre, o del terrorismo, o di malattie endemiche. Ma c’è chi lo fa, e sono soltanto medici come Te e come me, e tra questi vi sono anche dei medici legali. Ti do l’indirizzo del sito dei Physicians for Human Rights, ce la dai un’occhiata? Così magari ogni tanto ci pensi. Il PHR ha avuto il Nobel per la pace nel 1997. http://physiciansforhumanrights.org/

L’AMBIENTE
Le questioni relative all’ambiente tendono a ricongiungere quello che un tempo era unito, e cioè la medicina legale e l’igiene pubblica. Solo da pochi anni stiamo cominciando a capire come situazioni ambientali, da noi stessi provocate, possono influire in concreto sulla vita di molte persone, o di intere popolazioni. Il riscaldamento del pianeta, la desertificazione, l’inquinamento, la progressiva carenza di acqua potabile, l’insufficienza dei prodotti alimentari in alcune regioni della Terra appaiono essere i principali problemi con cui confrontarci, e ai quali potremmo anche soccombere come specie.
Molti Paesi hanno avuto una grande produzione legislativa su questo tema, ma non è per niente facile riuscire a far osservare delle norme che potrebbero essere difficilmente comprensibili. Guardate a quello- quasi nulla all’interno di un panorama molto più ampio- che sta accadendo in una regione italiana, dove non si riesce neppure ad eliminare la spazzatura, e dunque figuriamoci il resto.
Nazioni popolosissime sono all’alba dell’attività industriale, ed è dunque verosimile che esse contribuiranno all’inquinamento in maniera sostanziale, mentre altre nazioni non intendono fare un passo indietro in nome dell’ecologia. Ne stiamo già pagando le prime conseguenze a livello individuale.
Alcune di queste conseguenze a livello individuale hanno caratteristiche tali da interessare anche il medico legale. Per esempio, l’eccesso di mortalità negli anziani durante l’estate è attendibilmente dovuto all’aumento della temperatura, mentre lo stesso eccesso durante l’inverno è attendibilmente dovuto a malattie dell’apparato respiratorio, da inquinamento aereo. Malattie a trasmissione oro- fecale sono dovute a cattivo smaltimento di rifiuti e/o scarichi fognari inadeguati, e così via.
Se è vero che in molti casi non è possibile individuare una condotta umana che li abbia provocati, in altri invece la condotta umana è bene individuabile: scarichi industriali che inquinano fiumi e acque potabili, fogne a cielo aperto, rifiuti solidi urbani non rimossi, sono elementi per i quali azioni od omissioni dell’uomo sono la causa di malattie e talvolta anche di morti.
Rientrano in questo ambito anche i disastri industriali, dei quali abbiamo avuto in Italia un esempio nella tragedia di Seveso. Altri ve ne sono, per esempio la tragedia di Bophal, in India, ed il disastro del lago d’Aral. Se aggiungiamo anche l’inquinamento del mare (da petrolio, da tossici industriali- ti ricordi il disastro della baia di Minamata, in Giappone?) abbiamo completato il quadro.
E’ tempo, io credo, che anche il medico- legale si impegni su questo fronte, e dia il proprio contributo di conoscenze, per migliorare la condizione dell’uomo e degli esseri viventi attraverso il miglioramento dell’ambiente.
E’ notizia di oggi 4 luglio 2007 (vedi corriere.it che riporta la notizia dal Financial Times http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2007/07_Luglio/03/cina_morti_inquinamento.shtml ) che annualmente in Cina il numero dei morti per inquinamento è 750.000.

GLI INCIDENTI STRADALI
Il numero delle vittime di incidenti stradali è più o meno stabile nei grandi paesi europei, in Italia intorno a 6-7 mila morti, mentre il numero dei feriti è molto superiore. Sono state tentate numerose strade per ridurre il numero e la gravità degli incidenti. Ricordo che le cause degli incidenti possono riguardare il conducente, il veicolo, la strada. Ecco allora le norme per l’idoneità alla guida e il divieto di guidare sotto l’influenza di alcool e droghe; la costruzione di nuovi modelli di vetture, asseritamente sempre più sicuri; i miglioramenti delle strade. Ciononostante, il calo della mortalità non ne risente molto, probabilmente per il fatto che nuovi e più potenti modelli di vetture e il miglioramento delle strade invogliano ad una maggiore velocità.
Ci sono stati alcuni tentativi per ridurre per legge la velocità su strade e autostrade, ma non hanno avuto successo. Penso che, se davvero si vuole ridurre la velocità delle automobili e di conseguenza il numero degli incidenti, sia necessario costruire automobili che vadano sempre più piano. Alcune vetture hanno il limitatore di velocità (a 250 km/h), che però non serve a molto. Però se le automobili andassero più lente, ci sarebbero meno incidenti, si consumerebbe una minor quantità di carburante, e ci sarebbe meno inquinamento. E si andrebbe di più in treno o in autobus. Un ritorno al passato?
Immagino che i Lettori abbiano visto un morto per incidente stradale, o un pedone investito. Non è una buona morte.

GLI INFORTUNI SUL LAVORO
Anche gli infortuni sul lavoro sono causa di un gran numero di morti (circa 1200 all’anno), e il settore più rappresentato è quello dell’edilizia. Morti da precipitazione o da crolli, in gran parte evitabili. Qui occorre un serio controllo sul campo: l’ispettore deve verificare l’inosservanza delle norme con i suoi occhi, e dare le necessarie disposizioni. Non c’è altro modo. Scrivevo anni or sono sugli aspetti colposi dell’attività industriale, e riscontravo- con l’unanime approvazione dei presenti- che il desiderio di profitto del datore di lavoro era il motivo della carenza di presidi di sicurezza per i lavoratori. E’ anche il settore dove l’accertamento della verità può essere difficile, per opposte ragioni di natura economica. Anche gli eredi del morto possono avere interesse che la morte sia di origine naturale. In casi del genere, ho sempre preteso di praticare l’esame necroscopico, anche su cadavere esumato. Ne trovi traccia in una mia pubblicazione di qualche anno fa, su Pathologica. In tema di infortunio sul lavoro, ti suggerisco anche di praticare l’alcolimetria e la ricerca di sostanze (in primis, la cocaina, le amfetamine, la morfina).


LA QUESTIONE DELLE PENE
Come tutti sapete bene, ad ogni legislatura si insedia una commissione, che ha il compito di riscrivere il codice penale. Finora ci sono state quattro commissioni, se non erro, e nessuna è andata oltre il primo libro del codice penale, o forse poco più in là. Naturalmente di questo passo nessuno riuscirà mai a riscrivere il codice penale. Avremmo bisogno di una commissione permanente, che non si sciolga con il termine della legislatura, ma che continui a lavorare anche durante la legislatura successiva. E’ tanto difficile?
Ma, per quello che ho letto dei progetti di riforma, il cardine delle pene rimane pur sempre la reclusione, alla quale vengono riconosciute le note funzioni, di punizione, di prevenzione, di rieducazione. Uno spazio assai modesto è riservato a pene che sarebbero, io credo, meglio accettate, come per esempio le pene pecuniarie, o l’obbligo a tempo di attività lavorative socialmente utili. Quel che più sconcerta, nell’ambito delle pene detentive, è la ferocia delle pene stesse nel massimo edittale. Con molto buon senso, la maggior parte dei giudici non infliggono mai il massimo della pena detentiva, proprio perché è eccessiva, e ricorrono a vari mezzi per attenuare la pena, mezzi che sono regolarmente previsti nel nostro ordinamento. Poi ci sono amnistie e indulti, ma questa è altra questione.
Il tutto può generare incertezza, il che è contrario a quel principio fondamentale del diritto, rappresentato dalla certezza della pena.
Diceva il Beccaria, in quel libretto che tutti dovremmo leggere: “Quanto più la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e tanto più utile … Uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma la infallibilità di esse … La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione, che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza dell’impunità”. E concludeva: “Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi”.
In breve, il mio punto di vista è questo: la custodia cautelare si applichi solo quando sia strettamente necessario, e sia la più breve possibile; si riducano i casi in cui la legge prevede la detenzione in carcere e la detenzione duri il minor tempo possibile; si preferiscano pene alternative alla detenzione.

L’EUTANASIA
Credo di essere stato uno tra i primi medici legali a scrivere un libriccino sull’eutanasia, nel 1982. I temi generali di allora sono gli stessi di oggi, l’eutanasia attiva e passiva, con o senza il consenso del paziente, in quali circostanze, il diritto alla vita, il dovere del medico di preservarla, l’accanimento terapeutico, il rifiuto delle cure, il suicidio assistito, e altro. Nel frattempo, l’Olanda e il Belgio hanno promulgato due leggi che permettono al medico, in determinate condizioni, di terminare la vita del paziente. Sono due buone leggi, tecnicamente molto ben fatte, che offrono le necessarie garanzie per il paziente e per il medico che accetti di praticare l’eutanasia. Sono previsti controlli molto severi sulla casistica.
E’ necessario spiegare come Olanda e Belgio siano giunti alla promulgazione di una legge sull’eutanasia. Da molti anni, in questi Paesi, con il tacito assenso dell’Autorità Giudiziaria, l’eutanasia veniva praticata su pazienti terminali, su loro richiesta. Alla base di questa pratica c’era la grandissima fiducia che i medici olandesi e belgi, all’epoca dell’occupazione nazista, si erano conquistati rifiutando di collaborare con l’occupante e di consegnare le schede cliniche dei loro pazienti. Questo rapporto di grandissima fiducia reciproca si è mantenuto nel tempo, cosicché, quando la vita del paziente era giunta al termine e la salute non era più recuperabile, il paziente, per evitare un inutile prolungarsi dell’agonia, poteva chiedere al proprio medico di sospendere le cure o di somministragli un farmaco per abbreviare le sue sofferenze. L’ordine professionale non ha avuto nulla da obiettare, e anche l’ Autorità Giudiziaria ha compreso che non vi era nulla di criminale nel seguire questa strada. Così, lentamente e senza traumi troppo gravi, si è giunti alla promulgazione prima della legge olandese e subito dopo di quella belga. Dopo di allora, non vi sono state altre normative, anche se in alcuni Paesi l’eutanasia viene perdonata.
Allo stato delle cose in Italia, salvo qualche sussulto di giornali e televisioni, in occasioni particolari, non pare vi siano valide correnti di pensiero che possano in futuro portare a legiferare in proposito. E’ necessario anche affermare che non esistono i presupposti per consentirne l’applicazione, ed in particolare non esiste quel rapporto di fiducia fra il medico ed i propri pazienti, che invece è stato la condizione che ha permesso la promulgazione della legge e che ne consente l’applicazione, limitatamente, bisogna dirlo, ai cittadini residenti in quei Paesi.
Un testo italiano non ufficiale (in quanto le ho tradotte io) delle leggi olandese e belga lo trovi nel vol. VII di questo Trattato, al capitolo CCXVIII.
In generale, quando in Italia si parla di eutanasia, il dibattito si riduce a dichiarazioni favorevoli o contrarie all’eutanasia, qualche volta con l’indicazione di motivi prevalentemente soggettivi, dimenticando il retroterra culturale che non consente attualmente una legge sull’eutanasia.
Il mio personale punto di vista sulla questione è che, nella massima parte dei casi di eutanasia su paziente terminale, non vi sia alcun intento criminoso, ma soltanto pietoso, e che pertanto la Magistratura dovrebbe guardare a questi casi con grandissima comprensione e ricordare che la clemenza è una virtù attribuita a Dio.

LO SPIRITO DELLE LEGGI
Non sono così presuntuoso e non è neanche il mio mestiere. Non intendo emulare né copiare nessuno. E nulla so della tecnica legislativa. Commetterò degli errori, e tuttavia perdonatemi.
Il fatto è che io, e quasi tutti gli altri, non so a quali leggi devo attenermi. Sono certo che non lo sanno neanche i giudici e gli avvocati più bravi, e di sicuro non lo sa neanche il Legislatore. E, quando vedo allineati i poderosi e numerosissimi tomi delle Leggi d’Italia, io mi spavento, contemplando quale e quanta competenza giuridica mi è estranea. Non ho mai aperto nessuno di questi tomi, naturalmente, ma qualche legge l’ho esaminata, a pezzi e bocconi, perché dopo la sua approvazione e promulgazione la legge viene modificata, anzi a questo scopo viene promulgata un’altra legge, e se sei fortunato quando la cerchi trovi subito l’ultima edizione della legge (posso dire così?), nella quale forse ti vengono spiegate le ragioni che hanno portato alla modifica. O il più delle volte trovi la correzione della legge, e il pezzo che devi sostituire. E per fortuna Internet ti aiuta. Dico Internet, e intendo siti privati, perché trovare una legge in un sito pubblico può rivelarsi un’impresa. Trovarla poi nella Gazzetta Ufficiale è impossibile, se non con grandi sforzi e considerevole perdita di tempo.
Trovato il testo, dovete leggerlo, compresi i rimandi (di solito, un testo di legge comincia con: “visto …”), il che decuplica la fatica di reperire tali rimandi che giustificano la promulgazione della legge, o la centuplica se vuoi esaminare anche le leggi precedenti. Puoi solo sperare di trovare un bel Testo Unico.
Dopo aver letto il testo, lo dovete capire, e per fare questo vi servono (almeno) una monografia e gli atti parlamentari. Dovete soprattutto capire le ragioni sociali che giustificano questa legge.
Quando avrete finito, troverete, di solito è l’ultimo articolo, le abrogazioni di leggi precedenti, ma queste non sempre si trovano, e comunque l’elenco può essere incompleto. Di conseguenza, leggi non abrogate restano vigenti, anche se in contrasto. L’ultima trovata del Legislatore- ma questo ingarbuglia ancor più le cose- è la dizione che vengono abrogate tutte le precedenti leggi che siano in contrasto con questa. Pane per avvocati.
E’ a questo punto che a me viene di solito in mente l’imperatore Giustiniano, il quale scelse uno stuolo di validi giuristi, gli mise in mano delle scuri affilate, e gli ordinò di potare la fitta foresta delle leggi dell’Impero, che ne ostacolavano l’amministrazione e i rapporti fra i cittadini. E lo stesso fece con la giurisprudenza.
Credo fermamente che sarebbe opera meritoria se il nostro Stato riuscisse a fare quello in cui riuscì Giustiniano. Di giuristi validissimi ne abbiamo molti, anche in Parlamento, mettiamoli al lavoro. Sono sicuro che il denaro speso sarà ampiamente ripagato.

I NUOVI SCHIAVI
Caro Lettore, ti prego di non essere sconcertato. I nuovi schiavi esistono. Prova ad andare nel sito dell’ International Labour Office e troverai tutte le informazioni possibili. Forse ti aspetti che in Europa non ci siano nuovi schiavi, ma ce ne sono anche in Europa.
Siamo abituati a pensare che la schiavitù esista ancora, ma solo in certe nazioni dell’Africa sub-sahariana. Nella Repubblica del Congo, nella Repubblica democratica del Congo, in Rwanda, troverai bambini – soldato, obbligati a combattere contro le fazioni rivali e a servire da oggetto sessuale per il proprio comandante. In questi Paesi, e in altri, popolazioni intere sono state obbligate a lavorare per il vincitore, oppressore, paese confinante più forte, e a subire la selezione etnica e la deportazione. Mi puoi dire che lo sai, e che non è necessario scriverlo in un trattato di medicina legale.
Voglio però farti alcuni paragoni. Pensa al bambino che vedi mendicare ogni mattina all’incrocio: dove credi che andranno a finire le monete che gli vengono date o gettate? Pensa a quelle giovani ragazze seminude che stazionano lungo le strade consolari che raggiungono Roma (e naturalmente in tanti altri posti): dove credi che finiranno gli euro che i clienti gli danno? In entrambi i casi, i denari finiscono nelle mani di uno sfruttatore, cioè dello schiavista. Altri esempi: gruppi di lavoratori (extracomunitari immigrati illegalmente) sono impiegati a vilissimo prezzo nei lavori più pesanti e pericolosi, o comunque rifiutati dalla popolazione locale, senza alcuna regola di previdenza e assistenza. Spesso mi sono domandato se costoro troveranno prima o poi uno Spartaco.
Vedi dunque che la schiavitù esiste ancora, e noi non ne abbiamo preso compiutamente coscienza.


SALUTI
A chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui, è dovuto l’omaggio che si fa ai coraggiosi, un ringraziamento di cuore. E queste sono le ultime parole del Trattato, che si termina qui.

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